Nella scrittura, pensando, avvengono cose probabili, naturali e miracolose, nello stesso tempo e spesso nello stesso piano di accadimento. Per esempio: quello che scrivo non lo vedo sul foglio e non lo vedo quasi mai in parole, prima di codificarlo nel mio linguaggio, e nemmeno come il nastro di un pensiero compiuto o quanto meno coerente. Il mio linguaggio sul trampolino, prima che il dito batta il tasto, è confuso tra vari stadi di realtà, più o meno ispirati o confusi tra immagini, bagliori, eruttazioni, schiocchi, graffi di vinile o di artigli di gatte su tappeti, sentieri folti e boschivi di pensieri non ancora pensati, ma non lettere. Non vedo quasi mai le lettere che dovrò scrivere e trasferire. Non ne vedo la forma: questo vorrà dire che sarà già il pensiero dell'immagine a occuparsi di codificarle, alle mie spalle, naturalmente. E quanta fiducia potrò dare a chi articolerà questo codice frammentario, nell'oscuro? Che cosa o chi, si prenderà la briga di trasferire, tra un balzo o l'altro di pensiero-sentiero immaginario, quello che ne rimane? Il flusso fognario o il guano prezioso delle sue feci-voci narranti? Dovrei organizzare i piani costruttivi e creativi, con un rallentamento graduale, in modo da responsabilizzare i vari pistoni del motore nello scoppio dell'azione reale. Ma soprattutto per non affliggermi, quando la fragilità di questo codice residuo, imperfetto e imperituro, risulterà acerbo o guasto, al destinatario ultimo, se in fondo non sarà nemmeno così lontano, nella sua sostanza, da un intricato labirinto fognario.
L’influenza di Kafka
5 ore fa
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