mercoledì 9 novembre 2011

Lo spettro di visione

Credo allo spettro di visione in un processo di scrittura. Credo che sia il seme.
Mi guardo intorno e avverto altre priorità. Uno scrittore  deve maturare una capacità e uno spettro visivo, che giustifichi l'attenzione richiesta, il tempo di un lettore. Altrimenti la sua è una rapina.
Credo che vi sia un po' di confusione, tra efficacia, popolarità, comunicativa e riscontri immediati di questa comunicativa – tra l'altro si può essere comunicativi e scrivere male, ma questo non lo si dice mai. Venendo alle priorità, mi accorgo che la qualità e la grana di visione di uno scrittore, è dimenticata da molti, e spesso viene analizzata l'ortodossia o forma di culto della pagina, come spettro madre. La ricerca della perfezione a discapito della percezione. La forma e la regola della forma come condizione imprescindibile. Uno scrittore deve occuparsi anche di parole, ma esiste un intero mondo invisibile che deve percepire e trasmettere al di là delle lettere. Ed è qui che comincia il dramma.
 Il livello generale di chi si occupa di scrittura è piuttosto alto.  Scritture molto dirette, in rete ve ne sono diverse, ricche di consensi e di appariscenze. Io la chiamo la scrittura Sig Sauer, è una mia invenzione, un mio personale codice per evidenziare un certo approccio alla pagina. Per chi non lo sapesse, Sig Sauer è il nome di una pistola semiautomatica, una scrittura snella, tagliente, fumante, plastica. Credo che in diversi casi sia corretta allo spasmo, è fornita di un kit di editing e non sbava di una virgola. Ma in molti casi non vede.
Che cosa significa vedere o non vedere quando si scrive. Vuol dire splancare certi canali sensori e certi strati di osservazione nuovi in chi legge. Vuol dire dilatare uno spettro cognitivo e visivo, che attraverso la parola scritta, rivaluti e riqualifichi l'universo sensibile che ci fa vivi.
Lo spettro di visione è anche una ricerca faticata, che non ha niente a che vedere con la ginnastica ritmica dei paragrafi, ma con tutto l'impianto complesso e vibrante dell'immaginazione. Quando descrivo una ragazza in un certo luogo, posso disporre come scrittore di vari piani prospettici, di varie inquadrature, per ritrarla non solo nella fedeltà di chi in quel momento non mi è dentro o non mi è accanto, se sto descrivendo una cosa vista davvero, ma per incastonarla nella mia percezione di quell'attimo, che non sarà la stessa di ciascun testimone potrà attraversare quel punto di strada in quello stesso istante insieme a me. Quella ragazza verrà moltiplicata per tanti intrecci e incroci paralleli e individuali, diventandone cento o trecento in quello stesso istante, se consideriamo quanti altri ospiti indesiderati si insinueranno in quel frangente di osservazione.
L'obiettivo della mia descrizione, sarà quello di fotografarla da un mio piano e non da un suo. Di restituire la ragazza attraverso un mio occhio-occhiale privato, che riesca a distinguere le priorità e separare il mio intento dalla mera oggettività o visione comune o cronaca del fatto visivo.
Qualcosa che mi ha colpito molto e che in quell'istante poteva essere riduttivo o superfluo, ma che rappresentava e ancora rappresenta la chiave di accesso alla tensione del soggetto in espansione, rifrazione, coesione in quell'esatto frangente, con le mie dinamiche più oscure ed espanse, rifratte e coese del mio occhio. Quello naturale e non pensato.
Ribadisco che un'immagine da descrivere sarà scevra da un meccanismo di pensiero o di calcolo visivo, o bilancio. Non dovrò mai pensare a quello che vedo o a quello che conviene che veda, perché è quello che amano vedere gli altri – questo è uno dei più grandi difetti di molti giovani anche talentuosi. Devo vedere l'irrazionale, ma il primo lampo naturale che il mio spettro animale e selvatico di visione, in quell'istante preciso e non deciso, mi consente, senza legarlo a nessuna politica economica. Scegliere la visione che ameranno vedere gli altri, e vederla con gli occhi degli altri, vuol dire non vedere più e circondarmi di un branco di lettori ciechi come me.
Mi dispiace deludere i matematici della scrittura, ma in uno spettro di visione non esiste economia, non esiste utilità nel processo di combustione dell'immagine, ma esiste un colpo diretto, da prendere e da incassare, da subire e non da calcolare. Il suo livido da tradurre in qualcosa di comunicabile, quando passerà lo stordimento e avrò ritrovato pace. 
Quel particolare che mi sceglierà o che capterò tra tanti, sarà stata la radice del mio spettro di visione, e nessun particolare alternativo potrà restituirmi un' immagine di quella situazione più autentica, in grado di avvicinare anche il mio lettore al percorso intangibile e renderlo vivo con una sua nuova esplorazione parallela di quello stesso contatto o molestia visiva. In quel momento offrirò un'opportunità creativa. Con la dinamica di uno spettro creativo molto ampio e sensibile, lettore e scrittore saranno avvinghiati dallo stesso compito, inquinati dalla stessa presenza occulta o fenomeno visivo del soggetto ritratto o ripreso, senza che nessuno dei due dovrà compromettere l'equilibrio originario di visione, per accontentare l'attitudine di una visione popolare e di successo dell'oggetto-soggetto.
Non credo che sia importante quanto sia perfetta la fedeltà formale all'immagine. Il peso della ragazza, i suoi colori, i suoi collant o le sue ideologie. Conta il contrasto con la propria capacità di sogno e disegno, dove deve insinuarsi in controluce lo spunto per ritrovarsi nei sogni e nei disegni che potrebbe aver fatto chi mi legge se fosse stato al mio posto in quel momento. Tanto più bravo e sensibile sarà quello scrittore-medium, che riuscirà a rendere visibili cose che in quel momento non si sarebbero viste, facendo in modo che al prossimo impatto su di una figura simile, si varierà e si dilaterà anche il personale approccio o spettro di visione di  lettore-osservatore.
l.s.

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