martedì 20 aprile 2010

Guyau e il Pascoli di Castelvecchio e Masquerade. Il Tempo affettivo



Penso che solo in fasi successive comincia a farsi più chiaro il serbatoio di memorie e di piccoli bagagli acquisiti e in apparenza dimenticati o rimossi, che si trovano nel fondo ancora caldo di una storia e dentro di me. Come se tra me e le mie storie si innesti una relazione sentimentale in piena regola, con piccoli ricordi, passeggiate serali, ritagli di foto vissute insieme, un riparo fortuito e improvvisato durante un piovasco. Nel caso di "Masquerade", ogni tanto affiorano dei riferimenti di quanto sia particolare e animata, almeno nelle sue spirali di risonanza (ieri sera ero da solo in macchina sul tardi, rallentando in un incrocio solitario scorgo il vetro appannato e  mi suggestiono) sia quelle interne alle mie emozioni sollecitate, che  a piccoli passaggi che si incontrano lungo il proprio percorso.
Il primo è quello del Pascoli dei "Canti di Castelvecchio", che avevo cominciato a leggere con attenzione circa un paio di mesi fa, e soprattutto in una poesia "Il brivido" ho colto la stessa volontà di presagio che ho voluto imprimere silenziosamente dalla prima scena, che forse è già inclusiva di tutto il senso emotivo del suo sviluppo: "...sventola e smuove le foglie e fino alle dita dei rami nel buio". In effetti è un soffio abbastanza indeterminato ma ritornandoci lo avverto come una presenza. Ne "Il brivido" invece si allude a un tremito della sensazione fisica che dovrebbe significare il rapido passaggio della morte; "Il brivido che qualche volta ci scuote all'improvviso, è interpretato (in Romagna, che io sappia) come il passaggio della morte", dalle note originali del poeta. L'inizio può svilupparsi in quel senso solo inoltrandosi nella sospensione dei personaggi, e nel successivo passaggio delle luci dei fari sulla ragazza, che variano in sequenza dal rosso fino al nero. In questo caso avrei utilizzato due elementi come personificazione di un evento sinistro: il tremito delle dita dei rami e il passaggio mutante della luce sul corpo femminile, che tra l'altro non la vede: sarei io (colui che è narrato, in questo caso) a scorgere i segnali sul ramo e sul corpo che mi è accanto ma che non vede nessuno dei due. Responsabile di una serie di indizi che ancora non coglie e ai quali il lettore è portato a credere vagamente, come passaggi di uccelli di sera, senza stare troppo a soffermarsi ma soltanto confondendosi nelle ombre e nelle luci rapide. Nella poesia l'effetto è continuo di tremore provato sulla persona e non riflesso e visto da un altro:
"Mi scosse, e mi corse/ le vene il ribrezzo/ Passata mè forse/ rasente, col rezzo/ dell'ombra sua nera/ la morte..." Abilmente personificata e diretta nel contesto, così come ne "La nonna" ma adesso con gli occhi e non con il soffio: " Sì, pure al lettino del bimbo/ malato...la Morte guardava, / la Morte presente in un nimbo...[...] "la Morte da un angolo..." terribile l'angolazione spigolosa di chi ci osserva.
E dentro l'auto di "Masquerade" gli occhi cominciano a muoversi da quello strano vento fino alle luci, insieme a chi osserva dall'esterno, che non si vede ma si annuncia. Ancora una volta un'attesa. Tutta la storia è confinata in una sala d'aspetto infinita e claustrofobica (l'affetto recluso, oppressione e libertà di uno spazio affettivo, erotismo interrotto, destinazione oscura) e la personificazione di questo macigno di ombre e di luci e la Morte dell'affettività, come desiderio per non soffrirla o forse perché è un peso troppo grande e bruciante per chi scrive. Ed è adesso che entra in gioco Guyau, in uno stralcio rapidissimo di pensiero, quando scrive che soprattutto in punto di morte "la felicità più dolce è quella che si spera". In fondo l'imminenza e la natura del presagio, nascondono la stessa vena malinconica di nebbia verso lo spasmo affettivo  di un'eternità delle emozioni più dolci e impossibili, del suo viso senza gli occhiali che affama ancora più di baci, come la dolcezza del suo allontanarsi, dalla sua uscita dall'auto, fino al suo ritorno, dove si schiude una dimensione ombrosa e irreale di "Tempo affettivo" a cavallo tra le sequenze e i passaggi oscuri della vicenda ancora in sospensione. Ancora Guyau: "L'idea di passato e di avvenire non è solo la condizione necessaria di ogni sofferenza morale: essa ne è, da un certo punto di vista, il principio" (La genese de l'idée du temps, Alcan, Paris 1980).
Mi sono accorto che tutte le mie storie che toccano questi elementi così impalpabili dell'attesa e del dolore, sono inquadrate come luci e come tempi, da un pezzo di specchio rotto che riflette la loro iridescenza in più raggi,  a seconda della luce del giorno e del punto di inclinazione. E ancora come è possibile che sia nata una storia così esasperante e tremenda da una sensazione così delicata che provo verso la dimensione e la fragilità del mio sentire il tempo e lo spazio negli affetti senza tempo e luoghi? È una sensazione molto forte quella che la storia risenta sia del taglio pericoloso dei bordi aguzzi dello specchio infranto, ma anche della varietà cromatica di esposizione a un mio unico piccolo grande flusso sognante.
l.s.

1 commenti:

Anonimo ha detto...

Come sei bravo!
Fai un'analisi ai tuoi scritti da chirurgo cardiaco!
Quando scriviamo qualcosa... ritorna ritorna sempre
anche quando leggiamo qualcosa di particolarmente toccante...
ultimamente mi sta capitando di avere per casa
due sorelle anziane...
un uomo che riceve una strana telefonata nella notte...
una ragazza miope...
le vibrazioni arrivano e restano!
Stefania