martedì 13 aprile 2010

Passeggiata notturna: la tenebra nella tenerezza. Il senso dimensionale del mio narrante. L'indimenticabile.

Scrivere di uno scritto fulmineo, come sullo scatto rapace e ispirato di Daniela, significa che c'è da ragionare di un processo oscuro ma ancora palpabile, forse perché la ferita è ancora fresca e sono ancora intento a sciacquare il rasoio della storia. Questa piccola analisi o dissertazione su quello che possa rappresentare la dinamica di costruzione di una struttura narrativa, mi auguro possa essere utile a chi si occupa degli stessi processi naturali e misteriosi del linguaggio e di tutto quello che nasconde la casualità e l'impermanenza della scrittura, o almeno il mio senso dello scrivere, almeno in quest'ultima esperienza. Ringrazio prima di tutto Daniela Fariello e la sensibilità dell'occhio, che ha colto l'invisibilità dal gesto, quella stessa che sto imparando.
Il racconto, per confrontarlo con questa piccola ma approfondita analisi, si trova  qui

 La tenebra nella tenerezza
Non credo che conti molto l'investigazione del processo di costruzione in sé, ma tutto quello che non si vede. Con questa piccola prova, ho avuto conferma che ogni piccolo movente più o meno ispirato di scrittura che mi riguarda o mi molesta, mi riporta per ragioni diverse nello stesso luogo che in fondo mi sfiora soltanto e sembra che non ci sia o non ci sia già più, e in questo suo non esserci così probabile, diventa il più certo in assoluto su tutti gli altri. Non ho mai ragionato con un proposito specifico su quello che rappresenti la dimensione dell'assenza, eppure in un piccolo bilancio sull'impostazione di una linea comune di quelle che sono le mie sperimentazioni, rimane costantemente in filigrana questa figura debole e sfocata dietro una finestra, questo strato sfumato di perenne serale, appena tremante per chi voglia scorgerne meglio i tratti del viso, o forse confonderli con il movimento di una tenda o con il riflesso ingannevole di un lume da tavolo o un sorriso di speranza nella malinconia di una mancanza di me, orgasmica di un solo attimo,  che penso  rimanga il senso primario e profondo del mio piccolo intento espressivo verso un lettore. Penso che avvertire e suscitare alcune mancanze, dopo la lettura e immaginare nel tempo quello che sia o meno accaduto, sia uno dei perni su cui cerco di lavorare con il linguaggio e quella stessa mancanza vorrei imparare a provarla insieme al lettore verso quel mio me che ha narrato insieme con Luigi o a volte alle sue spalle. E questa, e ieri notte con "Passeggiata notturna" ne ho avuto conferma, è la dimensione comune di buona parte dei miei personaggi e delle loro dinamiche nelle storie sviluppate e molto probabilmente della mia vita che si muove dentro e fuori le mie storie. Un riflesso, l'incertezza di un controluce ("la compagna di classe") se una figura sappia o meno di umano, la probabilità che uno sguardo si sia incrociato, quando potrebbe essere troppo tardi o forse ancora troppo presto. Ma in questa piccola logica imperscrutabile dove cerco disperatamente di addentrarmi nel gioco o nella dolcezza di una sciarada, mi accorgo che sto vivendo una storia d'amore e indimenticabile con la mia stessa vita, ma quella dell'attimo più incerto e solitario, lo spazio più insicuro e ombrato, che ribalta di colpo la sua posizione e mi investe di una luce diversa, che forse è più il frutto di un profondo contagio che di una pura luminescenza o gioco di riflesso sull'acqua. Il rapporto della mia vita e delle mie scelte con la profondità del mio tempo non vissuto e forse il più fragile e amato: nelle scelte delle situazioni, prevale sempre una doppia immagine, come in un fotogramma sfocato, dove a volte il tessuto narrante si intreccia di tenerezza, la più lacerante e forse inesplorata, con l'opposto tenebroso e simultaneo di questa condizione indefinibile, dello sfioramento e del possibile o eventuale o mai, dove cerco di addentrarmi e di trovare un luogo, che coniughi e armonizzi in una sola voce la tensione impercettibile ma concreta dei due opposti. Nella "Passeggiata notturna", pur nella sua apparente semplicità, si coglie in continuazione l'ansia del distacco, l'opacità serale e mobile di quello strano luogo trattenuto e riflesso sull'acqua con i visi muti e parlanti dei due personaggi senza nome, insieme a un senso di desiderio e insieme di lontananza, che attanaglia il punto di vista di chi osserva e di chi legge, alle stesse dinamiche probabili e rarefatte dei protagonisti, come se ci si trovasse sull'orlo di un pozzo con la propria identità e quella delle parti in causa e confondersi. In alcune fasi non so più dove sia finito io e in quale delle due voci vorrei perdermi, e mi auguro che la stessa sensazione di spiazzamento la abbia anche il lettore, se cerca di entrare nello scritto da questa strana angolazione mutante quanto labirintica e dolorosa.
A volte immagino che chi sta scrivendo sia un'altra persona, e che io, Luigi, sia sceso nella stessa ora dell'atto di scrittura, a portare fuori il cane che non ho, a guardare negli occhi che non so, a guidare quella macchina che non ho mai posseduto.

Il senso delle dimensioni.
In questa strana storia vi sono diversi aspetti altrettanto labirintici da esplorare durante la lettura e la  sensazione di perdita: il vuoto della barca, la distanza irreale di chi chiama e da chi chiama o è chiamato, da quelli che aspettano di chiamare, l'arrivo inatteso del doppio o sdoppiamento simultaneo di ciascun personaggio (Il telegramma), la paura. Ecco, in ciascuno di questi luoghi potrebbe svelarsi il pozzo dei desideri o del soffocamento e annegamento per ciascuna parte operante, anche e soprattutto per il pdv. Ma chi è che scrive e che racconta di quella strana notte così flebile e ispirata? Una delle due voci che si sogna, uno che deve chiamare e che racconterà quello che gli è successo a un altro amore impossibile o già perduto, raccontando e mimando le parole di chi sta ascoltando e mimando o immaginando le risposte di lei così lontana e muta, oppure è proprio lei che si narra nella sua impotenza di poter guardare e toccare la sua idea di vero e di possibile o ancora sarà lui, nella parte più completa delle loro dinamiche reali di distanza e lacerante trafittura di quella telefonata con l'ansia di un conto alla rovescia? E in tutto quello che non si vede, e che non vede lei, quale sarebbe l'occhio spettrale che descrive e che osserva?  È vero che la barca è partita con due ragazzi così simili a loro? Se lei è dall'altra parte e ci sta credendo, è probabile che vi sia una dimestichezza e una docilità nel fidarsi e allora potremmo credere che sia vero. Ma se la prospettiva si invertisse, e fosse una dimensione immaginata, non è detto che sia meno attendibile. La ragazza potrebbe immaginare e farsi dire quello che desiderebbe accadesse e così contagiarlo della natura e della speranza del suo sogno. E lo scrittore sta sognando con loro? Io direi  di sì, ma che non sia necessariamente una posizione scomoda e irreale, soprattutto pensando che il pdv principale e il motore rimane il vuoto potenziale della barca, il suo disegno sull'acqua (interessante la personificazione con il modo svogliato di allontanarsi e così serio di lei) e il suo ritorno senza nessuno. Un racconto di speranza o la disperazione di un suicidio inspiegabile?  A questo punto mi sento di tirare in causa il narratore di quell'istante, ormai perduto ma forse recuperabile nella sua risonanza, e dire di sì, è un racconto di grandissima speranza: i due si ritroveranno grazie a quel vuoto che li sottrae a  ogni certezza troppo cercata ma non a quella sognata, e il piccolo miracolo avviene in quell'attimo ispirato e disperato di silenzio, quando rimangono tra la distanza del respiro e la consonanza dell'acqua. Mi piace viverla come possibilità, non assoluta ma almeno realizzabile tra le dimensioni e i piccoli specchi magici della storia, dove potrebbe rianimarsi una passeggiata avvenuta nello stesso luogo nella mia vita,  o immaginarne una possibilità, o la stessa barca potrebbe catturare nel mistero e mettere in crisi il meccanismo di chi si difende dalle dimensioni tremanti degli specchi d'acqua e dei visi lontani alle finestre con poca luce, e per spezzarsi invece le ossa del cranio sull'asciutto delle sue certezze. Mi sento di leggere in tutto questo un piccolo sdoppiamento fantasmico, nel perdersi e nel ritrovarsi senza una volontà. Il mio innamoramento quando adopero il linguaggio, parlo con un amico o asciugo il vomito di mio nipote Michelangelo dai sediolini posteriori della mia auto, sarà forse l'unica reale destinazione per trovare il mio luogo pluridimensionale, di vita e di scrittura? A questo non rispondo ancora. Forse per chi già mi conosce non sarà necessario.

Risonanza e intonazione di scrittura

Nello scrivere si stona e si stecca, esattamente come in una lezione di violino o di pianoforte. Non trovo nell'immediatezza di uno strumento rispetto ad un altro, possibilità di fuga dalla logica disciplinata di un' ortodossia tra le relazioni profonde nella sacralità di un determinato linguaggio. Come ce ne si accorge?
Io conosco molto a fondo, per una serie di trascorsi, la funzionalità degli strumenti ad arco nella musica classica e dei rapporti sottilissimi di rischio dell'intonazione nella dimensione tonale dove si muovono. Ogni arcata un rischio di scivolare, e soprattutto ai meno pratici questi errori sono manifesti e devastanti e al primo passo falso anche il vicino di casa più paziente potrebbe perdere le staffe. Bene, lo stesso avviene esattamente con la sequenza di un paragrafo, di una frase, di un racconto, anche di soli pochi righi. La stonatura infrange anche nello scrivere gli equilibri del possibile, dell'assente e dell'inimmaginabile o del perduto, e quando è massiccia impedisce "l'ascolto" dello scritto. Sono sicuro di quello che dico perché quando scrivo io costruisco dei livelli sottili di risonanza, con un mio personale fiuto o percorso, in assenza dei quali cestino e ditruggo, anche cento pagine o un lavoro intero. Putroppo ho incontrato molti lavori o forse troppi e anche "pubblicati", assolutamente privi di una minima logica di intonazione e di risonanza, eppure potrebbe sembrare più semplice con la musica e in effetti lo è: l'errore grossolano è così lampante: quando avverto delle distanze di comma o dei battimenti, non è solo l'orecchio ma sono altre parti del corpo che si ribellano, ed è giusto e buono che la ribellione avvenga perché è l'unico sistema per fermarsi, individuare il punto crititico e correre ai ripari. (Penso a Blaise Cendrars o a Miller e a quello che mi direbbero adesso). Ma con una pagina, anche con una sola pagina senza vita di suono, dove lo avverto il tritono, la dissonanza non prevista, il battimento? Io credo, nel mio caso personale, dalla stessa logica di assenza e di irreale su cui, nel mio caso, imbastisco e sviluppo le mie strane dinamiche narrative. Arriva da lontano e prima che tu scriva o pensi di cominciare. Un orecchio terzo o quarto o forse onnicomprensivo e inclusivo di altri sensori, pervadente nelle dinamiche relative ad apparati sensibili e sensitivi, molte volte dolorosi. Nei dialoghi, per esempio; bastano un paio di righi per vedere se lo scrittore abbia l'orecchio  adatto. Non tutti sono impeccabili, l'importante è affinarsi nel'intimità e "nell'erotismo dell'ascolto". Io sono convinto che in ogni voce vi sia un potenziale sensibile di erotismo sublimato verso la propria mobilità di percezione anche non troppo volontaria ("La petite mort" è quasi tutto costruito e impostato sull'erotismo dell'assenza e della perdita). "Erotismo dell'ascolto" come partecipazione sensibile di una serie di ingranaggi per cui l'attimo in cui si svela la propria voce, ha i suoi tempi privati, personali di indimenticabile nella possibilità stessa del loro rischio di perdita. La stessa attenzione che potrebbe carpirmi e catturarmi con due donne che mi parlano accanto e tra loro di quello che dovranno indossare in una certa serata che mai vedrò se non attraverso quell'istante,  o di un segreto terribile di morte.
Mai far parlare i personaggi nei dialoghi allo stesso modo,(errore comune negli scrittori poco musicali o improvvisati) ma quando avviene questo è meglio uscire e portare fuori il proprio cane reale e lasciare perdere. Putroppo ho avuto l'orrore di leggere testi pubblicati senza alcun criterio di ricerca, di sensibilità agli apparati del linguaggio, e questo è un discorso a parte. Non so davvero che farci. Questa è la responsabilità degli editori: se sei sordo a certe situazioni, non potrai scrivere! Io scelgo i vagoni della metropolitana in base ai visi e agli sguardi delle persone, e non in base alla lunghezza delle gonne delle passeggere.
La conferma di tutti questi strani fattori che ho scoperto soltanto nella solitudine di lunghe sedute di scrittura,  sta nella veridicità dell'emozione da parte del lettore, che diventa poi parte viva di un secondo sviluppo e di una seconda o terza vita, per la storia. Un linguaggio che suoni sul serio emoziona e non appanna l'idea dell'emozione, ma crea risonanza nella vita e nella nostalgia dei processi più sottili di memoria. I due protagonisti o forse reali narratori della passeggiata notturna, sono avvinghiati alla mia sfera di emotività nel solco inguaribile dello stesso innamoramento o erotismo dell'ascolto, di cui sopra: e senza che io gli abbia mai teso una mano o tirato una manica adesso vivranno e moriranno con me ( A volte slacciare un corpetto ad una donna alla finestra senza mani e da lontano,  è l'unico modo perché sia lei a farlo per te...) e così mi sono innamorato delle loro tenebre di tenerezza, della loro fragilità, della loro paura, del senso possibile della perdita e della loro assenza, come loro hanno fatto con me. Trovo che sia l'unica prova, anche nel suo irreale, che il costrutto della narrazione ha seguito comunque una sua logica -che alla fine sarà l'unico farmaco-: quella di perdermi nel profondo e attraverso una cura esasperante delle tensioni e delle atmosfere del mio linguaggio, delle dinamiche più sottili e imperscrutabili di quello che mi accade e che forse non sarà, e nella sua irrealtà giungere al vero o possibile movente della mia avventura o anche divertissement di scrittura: l'orgasmo di una nuova e indimenticabile mancanza.
l.s.


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