giovedì 17 maggio 2012

Scrittura e comunicativa. Il limite stupefacente

In un  certo percorso di scrittura alcuni cercano un effetto stabile o stupefacente, che attragga e costituista l'attracco di qualcuno al suo linguaggio. Quindi l'impegno nella ricerca dell'effetto, dell'effetto speciale, dove spesso si concentra il cuore di un lavoro: una trama stupefacente; un'ambientazione, anche quella, naturalmente, stupefacente. E i personaggi: devono stupire, essere unici, indimenticabili. Ancora più avanti, ogni tassello della propria strumentazione deve rimanere avvolto da una luce molto forte, che faccia aprire le bocche dei passanti e lasci tutti senza fiato e senza parole.
Credo che questo intrepido attacco del mio post, sintetizzi molte delle ombre presenti in moltissime persone dedite all'attivita complessa e frustrante dello scrivere (sono convinto che oggi  la scrittura sia in assoluto una delle attività più frustranti e deludenti, se fatta bene e con consapevolezza, soprattutto in questo caso: chi ha da dire non ha molte speranze).
Ho analizzato diversi stadi e diversi momenti ed emozioni che hanno interessato la mia pratica dello scrivere, e vi ho scovato all'interno i residui di una latrina umana squarciata ai cieli di Parigi. Tutto il peggio che ha riguardato e che riguarda la mia esperienza vitale nelle relazioni, si è insinuata alla base di un certo progetto iniziale di scrittura. Il desiderio di sbaragliare, di ferire, di scavalcare, di chiavare duro con le mie parole. Vi è stata una fase, una fase per fortuna circoscritta  a un certo breve periodo, in cui sottoponevo testi terribili ai miei amici e intessevo con loro, dalla consegna del mio testo e in tutta la fase di incubazione della loro eventuale lettura, uno strano rapporto, fatto di allusioni a  quel testo, cercando di carpire una sensazione, un  parere, un certo giudizio, ma facendolo in modo indiretto, sperando che la vittima fosse rapida alla mia sollecitazione e immettesse nel bel mezzo della nostra passeggiata un passo o anche un rigo del mio manoscritto, dandomi così la possibilità di sciorinargli tutta la mia serenata di contrappunto. In quel triste periodo, dividevo così le persone della mia vita in quelle che mi leggevano o che mi avrebbero letto, in tutte le altre che non mi leggevano e che probabilmente non mi avrebbero mai letto e il fattore ancora più tragico era che queste ultime che non mi leggevano, per me cessavano di esistere. Il mio mondo e tutto l'impianto delle mie relazioni, andava ad organizzarsi intorno a persone che avevano a che fare con i miei terribili testi sperimentali ed ermetici, e che avrebbero testimoniato la mia esistenza di scrittore attraverso la propria. Se scorgevo un bel viso mai visto, lo immaginavo assorto a leggere le mie parole e diventavo felice, come se mi avesse appena baciato nel sonno.
Credo che questo atteggiamento, che ricordo ancora molto bene, anche se ormai molto lontano, ma sempre in agguato se non controllato, rappresenti uno degli ostacoli più grandi del comunicare: la volontà di doverlo fare a tutti i costi, di doverlo imporre e non proporre, ma non per la comunicazione in sé, ma per l'effetto stupefacente del proprio comunicare, al di là della profondità e della qualità dei propri contenuti. Col tempo ci si accorge che un'espressione artistica che strumentalizzi l'altro e lo consideri solo come ricettore di un proprio universo immaginario, sia tra le cose più pericolose e nauseabonde in assoluto che possa accadere a chi tenta di scrivere. Quando leggo un libro, mi auguro che in quel libro non vi sia un sistema strategico di comunicazione, ma una consonanza, una sintonia. Una comunicativa.
Se le parole degli altri non saranno mai più importanti delle proprie, di qualsiasi altro al mondo, non credo che si potrà mai comunicare qualcosa con un proprio linguaggio. Forse, probabilmente, si potrà appena stupire con quello di qualcun altro.

4 commenti:

Marco ha detto...

"Chi ha da dire non ha molte speranze" è perfetto. Spietato ma perfetto.
Verso la fine scrivi qualcosa di molto intelligente e che fa giustizia di certi "maestri". In un libro non c'è un sistema di comunicazione, ma una consonanza, una sintonia.
I "maestri" di questi tempi parlano ad esempio di scrivere solo quello che il lettore vuol leggere. Come se la narrativa fosse una formula chimica, o una ricetta da replicare senza fantasia. A me pare che sia il comportamento che si riscontra nella mandria, e questa non ha molto da condividere con un "Grande Gatsby", per fare un esempio. E dalla mandria non si esce con un muggito più forte. Ma con un proprio linguaggio.

luigi ha detto...

Che meraviglia "Il Grande Gatsby". Non so dove lessi delle luci e delle ombre del libro, di quelle grandi feste, che cominciavano con l'ascolto del jazz al tramonto. Un libro bellissimo e luminoso, quanto complesso fino all'ultima sfumatura del suo protagonista e tutto narrato in prima persona periferica, prospettiva molto originale. E le figure femminili, davvero un mondo.
Grazie ancora per i tuoi preziosi e sentiti interventi.
saluti,
luigi

giulia madonna ha detto...

Certo, tutto vero e assolutamente condivisibile. Ma è anche vero il contrario. Mi spiego. Non è detto che uno scrittore con non riesce ad avere lettori o tutti i lettori che vuole o vorrebbe è un genio incompreso.Credo, invece, che la verità sta sempre nel mezzo. Credo che un libro bello o brutto, di fama o di flop abbia una vita propria che è al di fuori della portata dello stesso autore. Un libro è figlio del vento e prende le forme e i significati che ogni lettore ci vede dentro. E forse è proprio questa la vera magia e fascino sia della scrittura che della lettura. Giulia mADONNA

luigi ha detto...

bella l'idea del vento e del libro.
saluti,
l.s.