venerdì 18 maggio 2012

Bichsel e il racconto fantasma


È molto tardi. Un'ultima scorsa ai vecchi testi, da poco riordinati tra gli scaffali. Uno in particolare, di un'edizione molto bella, una I edizione Mondadori del 1967 con la raccolta dei racconti di Peter Bichsel "Il lattaio e altri racconti". 
Fin da quando ho scoperto questo libro, mi ha colpito il titolo: "Il lattaio". Un titolo bianco, come la sua scrittura. A detta di Zampa: prosa fantasma. 
Il lattaio è il titolo di un racconto e di tutta la raccolta. Un titolo di una bellezza semplice che anticipa quello che si incontrerà di misterioso e di innovativo nelle pagine. Racconti che superano di rado la pagina e mezzo, ricchi di una serie di fattori stilistici che al primo impatto di lettura mi catapultarono nel  valico di questo scrittore svizzero e maestro elementare, che mi aprì un mondo. Intanto questo mondo o finimomdo così emozionante, parte dalla perfezione del latte della bottiglia del suo titolo e si irradia nell'asciuttezza ma anche nell'insolito lirismo del suo discorso assente. Un approccio compositivo essenziale, terso, ma fatto di linee esatte, brevi, scandite, come righi di neve molto bianca sui parapetti azzurri di un piccolo paese. Molta luce e molta aria; tutto molto curato e cristallino, pervaso da un'ispirazione infantile e stupita della realtà. Nelle parole, dentro e tra le parole. La sua chiarezza stilistica nasconde però una notte meravigliosa.
Qualche assaggio:

"La bambina del terzo piano bussa al secondo piano e con buona maniera chiede timidamente alla signora se può avere la palla che dal terzo piano le è caduta sul balcone del secondo piano" ecco uno dei paragrafi chiave: elementari, luminosi, come se scritti da un suo allievo, ma correlati poi a una situazione, a un contesto di altri paragrafi simili che ne fanno un insieme complesso e fantasmico dove può accadere il disorientamento, lo straniamento.

"Ogni quindici giorni qualcuno scopa il solaio", questo è un altro rigo, isolato ma molto attento a perseverare nel tono basso e posato, quanto profondo,  quell'azione muta e viva dei luoghi.
I luoghi dove pare che nulla di così particolare accada, così come nel racconto "Piani", da cui i due estratti, ma dove invece si smuove un mondo parallelo di azioni interne non spinte all'accadere ma immanenti di una vita interna e segreta, che pulsa e che si sgrana paziente pur dentro la sua stasi – apparente. Particolari, quindi, per la sospensione dell'accadimento o per la sua retroilluminazione.
Nel racconto "Gli uomini," Bichsel entra dentro gli sguardi più interni verso una donna sola. Ascoltate l'attacco giovane e il suo primo innesto:

"Lei sedeva là. Se le avessero chiesto da quando, avrebbe risposto: "Da sempre, io siedo sempre qui".
Aspettava, ora un'amica, una collega, il treno, la sera".
Sono innamorato perdutamente di questo inizio. Semplice o facile, come direbbero molti addetti ai clamori letterari, e invece cosparso di luci e di ombre molto profonde, come più avanti:
"Il cameriere sorrideva confidenzialmente quando portava il caffè" e ancora, piccoli ritratti disegnati a mano ma già colmi di una loro verità intima: "Oggi in ufficio le avevano detto che era carina, il capufficio gliel'aveva detto, lei giocherellava col borsellino", anche quando l'interpunzione pare più sciolta, ecco smuoversi anche la prospettiva temporale e subito ritornata al suo tavolo, al suo gesto nel presente toccato dalla memoria e da una voce passata che si porta dietro i suoi occhi, il suo broncio stanco, la sua piccola luce della sera, forse il suo passo dolce sui tacchi.
Che scrittura, pensavo, fin dai primi righi dei racconti di Bichsel. Sembra così potabile, fatta di niente, eppure:
come un'amica, una collega, il treno, la sera...

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