giovedì 13 ottobre 2016

Nel silenzio puro degli abeti



Tacere significa ascoltare e anche ascoltarsi. E crea intorno un'idea di spazio, difficile da esprimere. Uno spazio ideale, non classificabile. Quello a cui penso a volte riguardo alla mia ricerca creativa, ha un altro sapore, un altro tempo, rispetto agli spazi previsti e a volte ambiti per condividere i frutti di un percorso. Un tempo dove esserci con il mio tacere, senza spingere, pressare o fare ombra, quindi senza troppa voce. L'ombra più bella è quella degli alberi, degli abeti, quando ci si raccoglie nella scrittura, che sia il mattino presto o l'imbrunire o la notte fonda, non cambia. Vorrei che le mie parole riuscissero a esprimerlo. È quello il mio obiettivo, la mia idea interna di spazio, non una piattaforma di lancio.
Uno spazio deve aprire non circoscrivere. Non penso alle radici della mia scrittura come a quelle di un bonsai. Lo spazio ideale dove inserire una mia idea, che avrei considerato condivisibile, non andrebbe mai misurato nel termine dei riscontri numerici e quindi della sua vastità in materia di piattaforme, che in fondo non fanno altro che circoscrivere le mie condizioni creative per i diktat di un mondo astratto e distratto da troppa offerta, trascinando me e la mia immaginazione, dalla fiancata di un monte al vasetto di un bonsai. La vastità deve essere interna al mondo misterioso di uno scritto e non esterna. Non ho mai pensato a misurare le mie idee creative in relazione ai tipi di spazi e nello stesso modo non credo che misurerò mai gli spazi in base a criteri quantitativi, che spesso si muovono in direzioni oscure, imprevedibili. Da cui un non incentrarmi sulla strategia, come appendice naturale dello scrivere, come occupazione essenziale, rispetto alla quale le parole diventerebbero solo l'orpello, il pretesto per raggiungere numero, consensi, pubblico: l'unica strategia che mi riguarda è allineata alla qualità della mia idea, o meglio a quello che al momento avverto come fattore qualitativo da sviluppare al massimo per recuperare l'intensità dell'impulso, restituendolo a tutta la densità con cui premeva quando era ancora al buio di me.
E già questo richiede un impegno considerevole, per fronteggiare tutti i contrasti e le cose che non tornano. Quella certa fluidità del discorso, per esempio, come mi è successo giusto questa mattina, rileggendo alcune pagine di un mio romanzo piuttosto  lungo, dove non riconoscevo tutto quello che della sua struttura mi rassicurava in estate, quindi un paio di mesetti fa. Gli stessi passaggi sembravano oppressi da un peso aggiunto, che a metà luglio era del tutto inesistente, almeno per i miei occhi e per le mie spalle di allora. Potrebbe dipendere dall'autunno, dalla qualità della luce, possibile, ma questo è solo per dire che non riuscirò mai a concentrarmi su quali siano gli spazi adeguati – se non prestigiosi – di condivisione di un mio testo, dal momento che lo spazio reale del mio testo è tutto quello che vi ho concentrato al suo interno, e che mi rimane al momento con tutta la sua vastità di penombra e di mistero; con i suoi demoni, le sue trappole, le sue strettoie improvvise e i suoi stafilococchi. Anche prendere la stessa curva che credevo facile, qualche mese prima, nello stesso identico punto, risulta in seguito, a distanza di poco, molto più arduo. Considerando che potrebbe aver piovuto forte, nel frattempo e che la presa degli pneumatici non potrebbe rispondere nell'aderenza allo stesso modo di come avveniva prima, ad asfalto asciutto e soleggiato. Il tutto che si legge e si riscrive e che poi si rilegge muta in continuazione, dentro e attraverso di me, come mutano le cose del mondo, di continuo, nella stessa inestinguibile impermanenza. Lo stesso avverrà negli occhi degli altri, degli ipotetici destinatari e quel controllo, che io mi illudo di poter ancora esercitare su di uno scritto lungo, nello studio di una sua traiettoria, non sarà quasi mai attuabile e non vedrà mai uno stadio di appagamento, perché le sensazioni continueranno a modulare da ambo le prospettive, quelle dei miei occhi, che sono convinti di muoversi e di sentire come si muovono e come sentono gli occhi degli altri, quando nella realtà non è mai così. Sono sempre in ottima fede e in ottima forma quando comincio. Il mondo sembra in attesa del mio primo tocco. La pagina bianca, pulita e luminosa, attende di essere riempita con la dovuta pazienza, dove stavolta farò tesoro di tutto quello che non ha funzionato prima, che non è andato perché non suonava come avrebbe dovuto. Prima, mi dico scorrendo tra le frasi ancora fresche, ero all'oscuro di questi elementi di ingombro, adesso sono consapevole di quello che devo fare perché ho maturato diversi aspetti importanti. E quindi procedo, convinto che quando avverrà il controllo a distanza, questo testo apparirà più organico. E invece puntualmente, anche se ho sistemato alcuni aspetti, le distanze con l'ideale di assetto del momento in cui io confronto, sono sempre abissali. C'è sempre qualcosa da fare, da riassestare – la migliore sarebbe davvero lasciar perdere o dare tutto alle fiamme, liberandomi dall'incubo. Ecco che cosa è la scrittura. Un mondo infernale, dove le preoccupazioni le concentro solo all'interno di queste dinamiche, di questi assestamenti infiniti, per qualcosa che potrebbe non trovare mai la sua forma ideale.
La creatività rimane un processo doloroso e illusorio. È tutto questo il suo fascino: la bellezza del dolore che interessa il percorso. Un esercizio dove la frustrazione e l'esaltazione sono vicinissime; spesso si alternano a distanze impercettibili e chi scrive non sa più chi sia e dove si trovi e neanche che senso abbia questa fatica e questo ardore profusi nel nulla, con tutti gli elementi contrari, a partire dalle stesse parole, che a distanza di poco sembrano essersi spostate come insetti e non essere più quelle che sembravano prima. E anche per chi legge: quasi sempre è certo che in quello scritto vi sia davvero quello che conta e che in fondo cercava e già conosceva, il tutto con un fare tiepido, di accondiscendenza a un lavoretto ben fatto, prevedibile e rassicurante, ma fino a quando non accade qualcosa di inatteso, che cambia tutto. Un imprevisto. In questo imprevisto, che lo scrittore non ha calcolato coscientemente, e che il lettore allo stesso modo non immaginava, inizia la sintonia. L'intesa con tutto il suo divenire. Se non avviene nemmeno per un istante un imprevisto, in relazione a quello che si credeva di sentire e che ci si aspettava, la relazione sarà fallita per sempre. In partenza. Fa parte del gioco. Nessuno spazio o mercato di sorta preserverà mai nessuno dall'imprevisto che l'alchimia di un certo linguaggio possa creare alle spalle dello scrittore come del lettore. Entrambi vittime di altri equilibri, che tramano un loro delirio alle loro spalle.
La consapevolezza di un valore è un processo infinito, che richiede tutta la mia anima. È importante rimanere in contatto con la profonda sostanza di questa esperienza, senza disperdersi con i meccanismi di marketing, con la fame di presenziare, di partecipare al banchetto cercando la migliore luce, che non spari ma che non mostri nemmeno le rughe. La luce di chi scrive è nel suo buio. Oggi scrivono tutti e quindi non scrive nessuno. Difficile incontrare qualcuno che non sia convinto di avere delle inclinazioni spiccate per la scrittura e che non voglia provarci sul serio. Non voglia buttarsi nella scrittura, non dico  nelle sue fiamme, ma nella possibilità che la scrittura possa offrire, per quanto sia un mezzo espressivo piuttosto immediato e innocuo, alla portata di tutti, almeno rispetto a un Bösendorfer. Fingiamo che io scriva narrativa non di genere. Una narrativa quindi molto contemporanea, per esempio. In alcuni momenti la contemporaneità della mia scrittura si svincola dal mio tempo e lo trascende, in una sorta di metacontemporanietà piuttosto sfrenata e refrattaria a una categoria che ogni prodotto che si rispetti dovrebbe contemplare per sopravvivere. Individuare un mercato preciso, un ascolto per qualcosa di così indefinito o comunque pieno di tante categorie e sottocategorie infinite è come giocare ai bussolotti, signori. Né più né meno. Una sorta di azzardo, di salto nel vuoto. Non ho mai pensato all'estensione di un mio pensiero in uno spazio rassicurante di consensi, ma alla comunicazione relata e profonda con quella che è la mia storia, con tutti i miei trascorsi e le mie condizioni del momento che mi hanno trascinato in questa follia, forse contro la mia volontà. Ma non mi sognerò mai di dedicarmi all'esplorazione di un territorio di mercato partendo da me, dal mio posto di questo istante, dal momento che questi elementi non sarò mai io a influenzarli, ma strade del tutto imprevedibili, incontri, circostanze, che non hanno nulla a che vedere con quel mio testo e con quella mia esperienza, che rimane qualcosa di vivo, poco intrappolabile in una vetrina. Nella mia scrittura la creazione e la soppressione si alternano.  Il flusso è terrificante. Come potrei dedicarmi ad altro se non a trovare un minimo di equilibrio in questi contrasti? Non mi interessano i numeri, grandi o piccoli. Non mi interessa la mia persona da nutrire con questo esercizio, ma solo il risucchio della sostanza creativa quando entra in contatto con l'aria, con la contemporaneità che la mia narrativa insegue, ma dalla quale è sempre preceduta, quindi combattuta e collassata. Il mio tempo esploso surclassa l'immaginazione. Ma allo stesso tempo la mia immaginazione trascende il vincolo della contemporaneità della mia narrativa e quindi i dettami rigidi di una sua collocazione, che forse non ci sarà mai. Non credo che la contemporaneità di un mio pensiero, di una mia frase, possa essere inquadrata in una dimensione stabile. Ma rimane fluttuante, vaga, forse avvertirò da solo da dove proviene quel certo pensiero. Forse da una ruota panoramica, che gira e rigira in un luna park o da un cassonetto di rifiuti, dove una donna che mi è di spalle e ben vestita sta raspando il suo dolore. Questi scenari non mi vincolano a un certo luogo, ma mi costringono a rievocarne risonanze e mistero, senza rete.
Quale spazio ideale potrei mai auspicarmi all'interno di un processo così oscuro? Chi sarò mai io per pretendere e chiedere attenzione, ascolto e quindi spazio, se non sarò del tutto sprofondato nelle ombre fitte del mio linguaggio, dimenticandomi di tutto il resto, del superfluo ma soprattutto dell'illusoria stabilità con cui immagino ancora tutto il resto? Dovrei dimenticare di esistere, ma rimanere avvinghiato nel labirinto del telaio e mutare di continuo con lui. Questo deve essere il mio primo pensiero. Il resto sarà secondario, non dico trascurabile, ma secondario. Lo spazio della mia narrativa, o presunta tale, con tutte le possibili contraddizioni della sua contemporaneità, non riguarda il presente della mia apnea. Trattasi di un'altra aria, respirata in altri fondali, dove le anime avranno la meglio sui numeri, sui calcoli, sulle strategie, a favore della bellezza di quel solo istante, dove ti accorgi di essere arrivato, senza prove o attestati di questo traguardo interno. Anche in un luogo vicinissimo, ma a una profondità che ti rimette al mondo e che è la stessa da cui attingo e cerco di attingere il materiale per dare spazio e vigore ai miei pensieri per caldeggiare il mio inferno. Per renderli vivi nella loro immateriale funzione di rimettermi al mondo, in ogni istante una regione nuova e inesplorata, dove respirare fuoco ma anche aria fiammata di mare, perché no. Aria di uragani, ma comunque di speranza e di mare. Non altro che sprofondare in questa nuova aria, dove fraseggio la tempesta della mia libertà ma senza volere cambiare un solo attimo della sensazione di purezza che una frase ben scritta potrà mai regalarmi. È questo lo spazio della mia scrittura. Incondizionato e fatto di aria. È tutto quello che ho. La mia casa bianca e immersa in una luce di neve e di mare. Nel silenzio puro degli abeti.











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