mercoledì 5 ottobre 2016

Azimut: la geometria illuminata





Quando morì mio padre ebbi la notizia di sera. Era già buio. Mi misi in macchina,  – in quel momento della notizia ero fuori città. Durante il tragitto ebbi la percezione esatta della vita e della morte, attraverso la continuità e l'indifferenza delle macchine che percorrevano la tangenziale, ciascuna con la sua storia, ma anche attraverso i palazzi dalle finestre accese, con i portoni bui di mistero, da tutte le delimitazioni rigide al mio spazio di carreggiata fino all'ingresso nel mio quartiere, dove percepivo l'ampiezza, il flusso doloroso delle cose che continuavano il loro corso, anche senza di me, poco prima di cena. Anche se fossi morto io, quella sera, i palazzi, le macchine e le corsie della tangenziale avrebbero proseguito la loro costante parata di luci e di ombre. Percepii, nello stesso tempo, da quella sorta di indifferenza, anche un elemento rassicurante, proprio dalla vita dell'ultimo tratto extra-urbano, prima di entrare in città, che mi diceva che in fondo, nonostante la morte, non c'era nulla, in quel momento, di cui preoccuparsi. Vi era quel flusso di luci, di oggetti e di cose inanimate, che si opponeva alla meta tormentosa del mio viaggio animato nell'ignoto, come garanzia che qualcosa rimanesse in piedi contro tutto quel bilico, per farmi sorreggere e non impazzire ancora del tutto. E tutto questo mi rincuorò, come mi avrebbe rincuorato qualcosa di umano, di vivo. Il solido contro il vuoto. La paura dello spazio e della vastità nei miei pensieri, aveva bisogno di quei confini sicuri, che spezzassero il gelo di quel mistero abissale.
"Azimut", di Emiliana Santoro, mi ha riportato al mistero di quella sera di morte e di vita. Il mistero degli oggetti, delle geometrie e della loro espressività, che Emiliana libera dalla loro muratura riconsegnandoli alla pozione magica di un incantamento, operata in una serie di raffinate congiunzioni tra limitato e illimitato, ma anche attraverso il mistero dell'illimitato nelle forme note e comuni che organizzano i nostri spazi vitali di clausura.
Emiliana organizza un viaggio sentimentale in un territorio dell'anima, dove ogni spigolo ha una sua componente creaturale ed estatica. Gli spaccati di cielo tra due palazzoni vicini, il fantasma della luna, il moto lieve delle nuvole in contrappunto all'immobilità del cemento, sono strofe di una sua canzone di cinema e di vita che non stona mai.
Non c'è retorica ma pulsazione e rigore in ogni sua scelta sintattica. I punti di vista sono molteplici, soprattutto per la disposizione emozionale di una certa obliquità di sguardo, un occhio controverso ma anche armonico, mai fisso sulla forma geometrica, ma sempre morbido e zelante nella plasticità della scorsa. I palazzi della periferia sono fatti di occhi, di corpi, di insonnia, come di risvegli, di appuntamenti e di ritardi. Classificano un moto della vita, uno spasmo, pur nella loro stazza minacciosa, allo stesso modo di un processo naturale, come la sintesi clorofilliana o gli influssi delle lunazioni su alcuni fenomeni terrestri; ma nello stesso tempo diventano lo scenario dei suoni di un giorno intero che ascoltiamo, a volte oltre l'imbrunire, e che senza quella struttura non avrebbero avuto acustica e quindi unicità, insieme ai colori veri di quell'aria, con quel tipo di intonaco e di architettura dove i personaggi invisibili ma presenti di "Azimut", libereranno o a volte mureranno la loro educazione sentimentale, il loro alfabetizzarsi al dolore come alla speranza o alla riluttanza dello stare al mondo attraverso quell'unico mondo o cassa di risonanza. Sono convinto che diventiamo le cose che guardiamo dalle nostre finestre. Ciascuno di noi avrà il suo albero solitario e malmesso, il suo cornicione, il suo comignolo, il suo balconcino soleggiato o il suo grattacielo che gli divora tutto il sole, ma che farà da ornamento alla configurazione di un suo paesaggio personale e immutabile, come un lineamento. "Azimut" riesce a dare animo alle sue ricorrenti geometrie trattandole come lineamenti di un viso che la  poetica di Emiliana dipinge e attinge dalle cose che sente e dai rapporti tra geometria e fluidità, materia e spazio, con cui si confronta, riuscendo a far vibrare di umanità oggetti di un paesaggio moderno e periferico immortalato nelle inquadrature più diverse, organizzando questo intento con un tono solenne e religioso, senza mai un grido.  La sensibilità dello sguardo è esattamente il concime che consente al progetto di raccontarsi con più trame e di procedere con una sua ritmica precisa, senza stentare, trattenere ma nemmeno precipitarsi. Questo progetto si muove in un equilibrio lirico. Le forme hanno il loro colore ideale. Il loro colore ha la luce ideale. E anche la stessa forma si coniuga all'assortimento cromatico e alla sua esposizione ispirata alla luce. Elementi in sinergia, rendono ai frammenti una loro completezza negli spazi dove vengono illustrati. Non ha bisogno di altro, Emiliana, per ottenere questo tipo di sinergia attraverso un'interazione tra elementi inanimati, che dimostrano di essere essenziati da una loro timbrica riconoscibile. La fotografia dell'amico e bravissimo Stefano Petti è davvero in linea con il sentimento di questo lavoro. E credo che tutti i collaboratori di questo progetto, tra cui c'è anche il mio amico Fabrizio Fiore, abbiano splendidamente supportato questo intento nella dovuta profondità, ciascuno con la propria arte e prospettiva. Si avverte un processo corale, come è giusto che sia e che avvenga nel cinema.
Molto interessante questa tensione dell'immobilità, un sottrarsi all'ansia del tempo comune eppure sgretolarlo attraverso un certo fulgore interno, soggiacente a quello che appare misurabile. Vi è sempre un doppio fondo, in questo scenario. Una vita dentro la vita. Un moto pulsante di solitudine dentro la materia, che la trasforma, come se fosse introdotta in un crogiuolo. Le figure e la fotografia di "Azimut" mi trasmettono ordine, eleganza, ma nello stesso tempo il tormento di un territorio mutante, che diventa contrappunto delle nostre prigioni, senza le quali non avremmo idea di quanto valga la libertà. Credo che Emiliana abbia voluto suggerirci una sua idea singolare di libertà lavorando sul silenzio e sulla spazialità. La libertà espressiva del suo linguaggio e insieme la libertà che uno sguardo può concedere a qualsiasi oggetto, quando è attraversato da un tocco così ispirato.
Eppure fino all'ultimo istante di visione, si avverte che questa poetica di solitudine non  si fa mai sfarzo della sua profondità di sguardo, ma moto sentimentale con cui celebrare un mondo di cose dette in sottovoce, quasi senza dirle, e proprio per questo più intense. Queste costruzioni sono fatte dello spazio fobico che occupano e dell'intensità che racchiudono. Del compromesso di quanto hanno sottratto con la loro mole e di quanto hanno configurato per il miele ancora caldo dell'alveare che le impregna e  le penetra. Sono irrorate della luce e dello spazio che hanno sottratto, come degli sguardi, dei saltelli sulla corda, dei delitti e degli innamoramenti che hanno concesso e poi testimoniato. Ma Emiliana alterna anche grandi affreschi di cieli e di campi aperti. Pensare ogni angolo e gradazione di questa struttura, è come trovarsi ad analizzare un mosaico e ricostruire dal tassello la misteriosa integrità che le cose inanimate ci restituiscono. Come se attraversate, anche per un solo istante, da un'illuminazione profonda, dove diventano altro da quello che si credeva di loro. Un occhio che guarda crede, ha sempre fede e innocenza. L'occhio non pensa mai se tutto quello sia vero o sia giusto, ma beve la luce di quella forma e si consola di questa conferma di sentirsi vivo nella luce e nella sua nuova aria. Sarà forse questo il senso del cinema? 
L'occhio di Emiliana ci racconta di frammenti illuminati di questa nuova aria che smuove e commuove le cose, nel passaggio da un livello di realtà al magma di questo altro strato, meno tangibile, e di questa sua purezza di sguardo, con una poetica delle immagini tenera e preziosa, che non dimenticherò più.
E va a lei il mio grazie, restituendole, nel mio piccolo gesto, la delicatezza con cui mi ha inserito negli special thanks del suo film.








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