lunedì 10 maggio 2010

Prove di narrazioni in bozze grezze: Clair de bougie.(I)

Il materiale narrativo che organizzo, di solito vive stagionature oscure, con modifiche, cesellature o tagli profondi che ne diramano il destino in più estuari nel tempo o in una morte lenta e rassegnata o a volte improvvisa, ma sempre in un contesto intimo e privato. Questa particolare struttura appena organizzata,  la vorrei invece codificare come pretesto per un piccolo laboratorio pubblico e non solo privato, in modo da responsabilizzarmi alle mie modifiche, ai miei ripensamenti, ai miei ritmi variabili di scrittura, ai criteri delle mie scelte e dei miei azzardi. Con questo incipit, cerco di ottimizzare subito due punti sacri dell'impianto: l'atmosfera delle luci e dell'attesa: cerco di realizzare senza troppo sforzo, un' immagine di luogo, intrecciandovi a ruota l'attesa di qualcosa, che comincia a sibilare e a inquietare con dolcezza il processo di lettura e la profondità notturna degli ambienti. Non specifico l'età dei ragazzi. Preferisco staccare sulla differenza di temperamento e sulla risposta emotiva alle sollecitazioni del contesto, più che sulla sottigliezza degli anni reali di vita. A volte, gli stadi emotivi e i singoli percorsi esistenziali, possono sorprendere e spesso anche tradire, oltre le dinamiche reali di tempo. Come in questo caso.

                                             Clair de bougie

Non riuscendo a dormire, Gérard Dussier è costretto a raggiungere nel buio della tenuta della famiglia Fournier, a Camargue, in Provenza, la stanza vicina di suo cugino Pierre, appena più grande di lui di qualche anno, a causa di uno dei suoi frequenti incubi notturni. Portando la candela, a piedi scalzi, lo sguardo veggente in un viso magro di pallori e intrisi di ansie, dal ricordo di fiabe nordiche e lontane, adesso ravvivate come fiammine azzurre da un piccolo paracenere di camino.
"Sei sveglio, Pierre?", gli dice, appena entrando: nel sussurro le sue parole confondono in dissolvenza il fumo lanoso della candela nel buio. Il silenzio della sua voce, nei suoi passi ancora incantati dall'oscura risonanza dell'incubo. Pierre dorme ma lo ascolta entrare e si fa desiderare sveglio, lasciandogli ancora l'incertezza tenera della sua assenza mimata, con un filo di sadismo adolescenziale o petit divertissement. Con mano tremante Gérard posa la candela sul piccolo tavolo, che chiude lo stomaco grigio di un vecchio finestrone da collegio, dove appare la sagoma tesa di un albero e di un pezzo di campagna lontana.
Rimane nella penombra, accanto al letto, a misurare il respiro del cugino.
"Sei ancora vivo, Pierre?".
"Che ti è successo? Non riesci più a dormire?".
Il volto di Gérard, adesso più disteso. Dall'esterno il canto chiuso e secco di un rapace, che ingoia lo scorcio di manto stellato nella  chiusa di un gorgo. Si volta impaurito, come per rimproverarlo.
"Ancora lo stesso sogno, Pierre. Non mi lascia più più".
Pierre ha richiuso gli occhi, ma adesso lo ascolta. Ha la bocca che sorride e gli occhi profondi che dormono.
"Mi stai sentendo o mi prendi in giro?".
"Più più...et porquoi il ne te laisses pas?".
"Che fai, non mi guardi nemmeno in viso, adesso?".
"Continua che sono qui. Ancora la grassa cuoca, che ti vuol cucinare come una piccola oca, vero?".
"Non è solo quello, e poi quella donna esiste davvero, è quella grassona spagnola che lavora in questa casa. Quella che viene qui tutte le estati. Io l'ho vista e lo so che fa certe cose, me lo hanno detto".
Pierre a quel punto apre appena gli occhi, sgrana uno sbadiglio e si riassesta. Sembra svogliatamente interessato.
"Avvicina la candela, che ne parliamo un po'. E vieni qui vicino, che sei tutto infreddolito".
Gérard come al solito obbedisce. Prende la candela e l'avvicina al tavolino più piccolo, che rasenta i due lettini, di cui uno solo è occupato.
"Tua sorella non è ancora rientrata. Come mai?".
"Forse...forse l'avrà presa la grassa cuoca, non si sa mai!".
"Stupido che non sei, così mi metti spavento. Che faccio adesso con questa?",  tenendo ancora la candela malferma in una sola mano.
"Come sei strano così. Non ti muovere. Hai tutta la luce che sale e ti lascia gli occhi di argento e il resto  color mezzanotte. Fai proprio impressione, sembri uno spettro.
"Color mezzanotte? Che colore è?".
"Quello rosso che spinge quasi al viola. Quando il cielo è gonfio, come un livido e manca l'aria e pare che ti schiacci e si abbassa sempre di più...".
"Che cosa mi schiaccia? Il cielo?".
"Con quel colore pare che si abbassi e che si inabissi dalla tua gola e ti mangi l'anima e ti arrivi al cuore".
"Sei cattivo quando fai così. E io che ero venuto per rifugiarmi. Adesso vado a svegliare la zia Isabelle e così le racconto tutto, ecco!".
Il viso magro e appuntito di Gérard è circonfuso dal piccolo emiciclo del solco illunato e fumante. Un'ansia profonda gli sbarra ancora gli occhi verso la fiamma, trattenendo il respiro in un ghigno che gli sforma il piccolo naso perfetto.
"Mettila qui, enfantasme, avanti, che adesso ti ascolto, non fare il bambino, che io gioco, lo sai".
Gerard prende coraggio, posa la candela sul piccolo tavolo e si accosta al letto, con un'aria più docile e fiduciosa negli occhi stanchi di paura, ma ormai senza più sonno.
"Allora, lo vuoi raccontare questo sogno?".
"Tu dici che mi passa se lo racconto a te?".
"Altrimenti perché sei venuto a trovarmi? Per parlarne o solo per svegliarmi?".
"Così, perché avevo paura e anche perché mi mancano mamma e papà".
"Oh, mon Dieu, che tenerezza, piccino mio. Siamo proprio nei pasticci, allora. Hai tutta questa nostalgia di casa, e per queste sciocchezze io dovrei sacrificare anche il mio sonno? Ma, dico..." e si frena in un lungo sbadiglio rassicurante, stendendo tutte le braccia e allungando le gambe da sotto le coperte, come due grossi serpenti  constrictor, affamandosi di luce e di spazio.
"Non sono sciocchezze. Dice sempre la mamma che la nostalgia è quella degli stormi che tornano la sera, e degli angeli e dei fantasmi dei morti da bambini che soffiano le piume delle stelle sulle notti. È una cosa ancora così dolce, e poi mi addormento in una sua mano, che è quella sua voce leggera che rallenta quando comincio a chiudere gli occhi e a non sentirla quasi più, e quando si spegne pian piano la sua voce, come se cantasse, nella luce di un lumino azzurro, quello che mi tiene appena caldo per le sue antiche fole notturne, e quando lei non c'è più, allora arriva la grassa cuoca bruna, e la mamma mi dice sempre il vero".
"La grassa cuoca. Ma lo sai che poi non è così cattiva? La scorsa estate ha preparato per tutti la panna cotta e anche le zeppole della Gianna e i biscotti caldissimi, ma tu eri a Dobbiaco, non c'eri. Perciò ne provi paura, perché non la conosci!", ridendo sprezzante, Pierre, e guardando la candela appena tremante nel buio della stanza fredda, che così pareva molto più grande.
"Sarà, ma tu non sai quello che fa nel sogno".
"Me lo posso immaginare quello che fa. Una grassa cuoca...cucina, no? Cosa altro può fare, Gérard, insomma! Ah, ah, ah", e cominciando a scuotersi nelle lenzuola, cercando  a tutti i costi di renderlo più inquieto e nervoso".
"Così mi fai dispiacere, Pierre. Io non l'ho mai fatto con te. Se lo fai ancora, io domani lo dico a zia Isabelle",
"Avanti, quanto la fai lunga tu. Non si può neppure scherzare. Sentiamo le prodezze della tua eroina, avanti. Giuro che non rido:
Gérard adesso si concentra, fissando il baluginare della candela, che lascia il loro cono illuminato  in una riga di crema inglese. Chiude gli occhi e comincia:
"Ero sceso che era già tardi, nella cucina. Faceva tanto caldo. Avevo sete e non vedevo nessuno. Sentivo la fiamma che grattava il fondo di un pentolone e solo quella luce lì. Non ricordavo i posti. Il pavimento a quell'ora era fresco. Mi avvio e cerco di raggiungere la fontana, quando la cuoca spagnola, con i capelli tutti sciolti e gli occhi grandissimi, mi balza d'improvviso davanti. Aveva sempre quel camice bianco e azzurro, tutto aperto e bagnato sempre di umido e di altre macchie brune di cucinato, all'altezza delle mammelle. Mi mette paura. Mi si para davanti, mette le due mani grasse ai fianchi e mi dice che a quell'ora i ragazzini come me devono stare a letto, e che nella sua cucina nessuno deve permettersi di entrare. Quando si interrompe, io le vedo il petto che tambura, come a tempo con  il suo cuore e poi avverto i grilli che ridono, dal finestrino aperto, come se ridessero di me, della mia paura del buio. Le chiedo, balbettando, solo un bicchiere di acqua, che sto morendo di sete e sono sudato. Ma la grassa fa un sorriso cattivo e comincia ad avanzare, senza darmi la possibilità di fuga, perché dietro di me c'è la parete con la porticina dello stanzino, che di solito è chiusa sempre a chiave. Retrocedo, cercando di sfuggirle lo sguardo, che è così cattivo.
"Adesso devi avere una punizione, piccolo malandrino. Eri qui per rubare, non è vero?", mi grida.
Non riesco a rispondere, ho la lingua che mi trema e poi i vapori del pentolone mi creano oppressione. Sento un odore di carne vecchia e il suo corpo grasso avanza. Sto quasi per piangere. Non ho la forza per chiedere aiuto, che nessuno mi crederebbe mai. Di giorno è sempre la più amata, la cuoca spagnola che cucina prelibatezze per tutti.
"È così che volevi bere, e non volevi rubare?", mi dice, quando ormai il percorso è finito e manca meno di un metro alla parete. Allargo le braccia, per misurare lo spazio, quando il donnone comincia a sbottonarsi il camice, dai primi bottoni, quelli di sopra, e mette fuori una sola mammella, grandissima, che ha dei capelli e due occhi di vetro e un becco  al posto della bocca, che si allunga e comincia a colpirmi, spicca verso i miei occhi e sui miei palmi, quando apro le mani per coprirmi, e poi viene fuori anche l'altra testa, con i capelli lunghissimi e un solo occhio di vetro, dall'altro c'è un buco con una lingua lunghissima che mi sfiora e si attorciglia e mi sbava sulla fronte e poi si diverte a entrarmi nelle orecchie e tutte e due emettono dei suoni tremendi, come dei rospi sgozzati. Così chiudo gli occhi, continuo a pararmi dai colpi con le mani e mi abbasso, sperando che non riescano a prendermi, ma i capelli cominciano a crescere, nerissimi e sempre più lunghi e mi prendono alle caviglie e mi legano anche i polsi e poi mi arrivano in bocca. La donna grassona ha la faccia tutta rossa, perché le teste dei seni quando si allungano le fanno male, e allora deve abbassarsi e seguire la loro inclinazione. Poi, allunga un braccio al pentolone ancora in ebollizione e raccatta due grossi pezzi di carne nera. Le imbocca, una alla volta, sgocciolanti di olio rosso e cattivo e per un attimo mi sembra di riprendere a respirare, perché adesso sono impegnate a ingurgitare, quando di colpo mi sento svenire e il suo viso adesso si avvicina ancora di più e aprendo tutta la bocca, mi dice: "Ho divorato la tua mamma, vuoi sapere adesso dov'è?", quando mi sveglio. Sudato e trafelato, come se stessi ardendo nel pentolone!".
Gérard si ferma. Rimane serio e tremante, con gli occhi stretti e chiusi.
Pierre non scherza più. Gli avvicina una mano alla sua più piccola e bianca, e cerca di fargli calore, perché la sente gelata.  Dalla finestra un fiotto bianco e sordo di ali, che  fa sobbalzare entrambi. La candela si spegne.
In quel momento bussano piano alla porta.
"Chi è?".
l.s.


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