venerdì 14 maggio 2010

Fanny nostalgie...






Fanny nostalgie
(Piccolo studio surreale in forma di fiaba, per una classe reale la III E del Liceo Braucci e alle piccole grandi speranze dei loro cuori scrittori)


La finestra ancora aperta nel reparto del secondo piano.
Di sera da quella finestra dell'ultima camera arrivava il vento, dove mi fermavo da circa un mese, e notavo le lenzuola appena arricciate e poi ricomposte quando da quel vento arrivava la notte, scavalcando lo steccato di quello strano respiro serale, con la maestria di un grande fantino francese che sterrava schegge di siepi e di guano, dentro spilli soffiati di stelle azzurre. E allora tutto si stellava, anche un po' nella mia vita così stramba. Fanny era l'ultima ragazza rimasta ancora lì, quella che appena la curva del cielo si faceva più ampia, interrompeva qualsiasi cosa e rimaneva a guardare. Il piccolo naso contro il vetro e quei suoi battiti smemorati, che sbagliavano tempi dentro il suo cuore scheggiato e sfortunato, ferito nella sua prima bellezza da una pioggia di inspiegabili infarti: il primo a sedici anni. Io, giovane clown volontario – portavo del clown solo il naso, e poi mai nient'altro - che tornavo dalla pediatria e ogni tanto mi fermavo a salutarla in chirurgia.
“Che cosa vedi adesso che fa buio, Matteo?”. La sua voce, così piccola e intensa che non mi aveva mai cercato e sorriso, mai prima di quella strana notte di sereno.
“Quello che vedi tu”.
“Tu pensi che siano proprio uguali le cose nei nostri occhi?”.
“Perché, tu pensi di vederne altre?”.
“Non lo so se sono più le stesse. Io penso che sia un po' troppo facile così”.
Mi feci più vicino e le guardai il dito che scendeva sul vetro e imitava la forma di qualche nebulosa o stella lontana dispersa in qualche altro mondo invisibile.
“Tu che cosa ci trovi, allora?”, le dissi a bassa voce, mentre il suo dito freddo adesso si fermava nella mia mano.
“La mia solitudine è lassù e non sarà mai la stessa tua, è tutto quello che vedo adesso”.
“Perché?”.
“Perché tu sei un pagliaccio che fa divertire i bambini e dentro i tuoi occhi di volontario, non lo so...le cose sono meno lontane e diventano un po' come risate, quando prendono la forma finta del tuo brutto naso, e allora io non ci arrivo più così vicino”.
“Come lo fai a dire?”.
“Lo dico perché lo sento, anche se poi non lo vedo neanche già più”.
“Alla fine, sai che siete proprio voi a renderci più felici? Questo lo sai, non è vero, Fanny?”.
“Davvero non ti mette tristezza stare qui con me? Proprio io che non ridevo mai e che non ti ho mai dato soddisfazione?” e continuando a guardare fuori, come nel vuoto di un dirupo.
“Di solito non ci penso mai a certe cose”.
“Guarda che buio lì fuori. Se arriva qualcuno poi ti mandano via, e poi, tu a quest'ora non hai nulla di meglio da fare?”.
“Non ho grandi compagnie, o almeno non belle come la tua”.
“Boom!”.
“È vero invece; perché adesso mi fai così?”.
“È perché mi devo operare al cuore domani; è solo per questo, vero?”.
A quelle sue ultime parole, ci fermammo entrambi, come se inchiodati dentro il maglio di uno stesso bacio.
“Non lo so perché a quest'ora sono ancora qui con te. È che vedi, non mi era mai successo prima di...”.
“Di?”.
“Non lo so nemmeno io se sia giusto, forse non ha molto senso, ma poi penso che non ci sia niente di male”.
“Di?”, insistendo con tono più deciso, ma senza ottenere risposta: allora mi guardava con un'aria smarrita. Il suo pigiama azzurro e corto, i piedi incrociati sul letto, nei suoi calzini arancioni. Morse un biscotto e poi me ne diede un pezzo.
“Tu sei fidanzata, Fanny?”.
“Che razza di domande che mi fai? Con tre infarti giovanili dove ce lo metto un fidanzato, eh? Brutto pagliaccio che sei!” e accennando a un piccolo sorriso nervoso e appena divertito.
“Immaginatelo lì, guarda, dove finisce il mio dito. Loro che ne sanno degli infarti”.
“Loro chi?”.
“Quei pesciolini di neve, che si accendono le code nel cielo e che adesso si stanno addormentando nei nostri occhi, che forse ti amo, e allora sono anch'io lassù con loro e più lontano”.
“Ma che sciocchezze stai dicendo, Matteo?”, la ragazza Fanny: che si fermò imbarazzata, fissandomi e poi alzando subito gli occhi con violenza, e spostandoli di nuovo fuori, in un attimo incantato di tristezza e di paura soffocante. Avvertiva che forse stesse avvenendo qualcosa di sbagliato e di impenetrabile, e così da quell'istante ci evitammo in perfetto contrappunto e con una riga uguale di cinereo e di dolore sui visi, la stessa tenebra nel suo broncio che mi si dilatava dentro nel contagio della sua nuova maschera, da non darmi più il tempo e quando poi non sapevo nemmeno più che cosa dirle, puntando nel buio quella stessa direzione di ansia, dove adesso ritornava a perdersi, come per un dispetto o per un grande castigo da infliggermi.
”E poi io non ne vedo nemmeno uno...”, adesso in tono più marcato e severo, sospeso e appena più sobrio nelle parole.
“Peccato”.
“Si è fatto tardi, Matteo”.
Il brutto pagliaccio che ero si tolse il naso e glielo porse, con indolenza. L'infermiera intanto arrivava teutonica nel suo bianco e con uno sguardo altrettanto severo, facendomi segno con piccoli rintocchi sul polso che era arrivata anche l'ora di andare. Ci sfiorò entrambi, con un'aria perplessa, che però sviò subito, senza soffermarsi. Ci salutammo con una grande e sconosciuta freddezza: il cenno stanco di un mio dito, senza dirci altro e spostando subito, Fanny, quella sua lunga ombra e svogliata di sguardo, il più lontano possibile da me. Lasciai di fretta il reparto, con un solco trattenuto di dolore e di nausea nello sterno. Una volta nel cortile il suo piccolo viso dal padiglione di cardiochirurgia, che mi guardava immobile sfocarmi e farmi più lontano. Rimasi a fissarlo ancora, e aspettando che si facesse ancora più tardi senza neanche deciderlo, forse per stancarmi o stancare ancora prima il suo volto quasi assonnato, che pareva essersi sporcato del mio stesso improvviso misfatto e forse adesso diventato ancora così serio e così adulto, in una volta sola e come non era mai stato, quando all'improvviso quella sua voce così piccola e sfumata che mi raggiunge a bruciapelo, in una tenacia così anonima, sfrecciata come dal taglio di un agguato di caccia:
“Forse saranno le stesse che vedo anche io. Tu che ne dici se io un po' ti credessi davvero?”.
Mi girai, stupito e commosso, ormai quasi senza più voce in gola.
“Che fai, non mi rispondi nemmeno più?”.
“Perché tu non ridevi mai? Non me lo hai mai detto”.
A quelle parole il cielo si spense di colpo, come se mozzato dal buio di un grande infarto imponente: rimanemmo a bocca aperta, senza riuscire quasi più a respirare: una pioggia di delfini azzurri e fumanti come comete improvvise, che scherzavano di scintille e tintinnii tra i satelliti e i pianeti, e dentro l'orgasmo di un'esplosione funambolica di lattimi e piccoli cristalli, su tutto il tratto di acquario notturno e infranto del cielo, che staccava di schiuma sul tetto dell'ospedale e che adesso solcava i nostri occhi soltanto, fino a spezzare un albero e le fleboclisi del reparto, nello schianto perfetto di una sua risata indimenticabile, dedicata alla mia vita caduta di peso dentro la sua. Poi tacque tutto di colpo; dopo la bellezza romantica di quel boato inspiegabile e soltanto nostro, che ormai era già sfuocato nella fretta di un ultimo spettacolo di provincia, e come se sventratosi nel salto mortale di un sogno.
Riprese a cantare il vento, dalla stessa finestra aperta del reparto, sulla notte più lunga e più dolce di Fanny. Il suo sorriso calmo e diverso, dentro i miei passi già lontani. Il mio naso di gomma dimenticato sul suo viso, nella dolcezza del primo sonno.
fine

l.s.










2 commenti:

Anonimo ha detto...

Questo racconto è rimasto nel mio cuore... Lo sai.
Un caro saluto, Sandra

Anonimo ha detto...

Anche nel mio...e' molto delicato e prorompente; sapientemente si insinua in tutti i nostri sensi.
Un abbraccio
Stefania