martedì 2 febbraio 2010

Lingua e Parole

Alcuni stralci dall'interessante capitolo di Roland Barthes, dai suoi Elementi di semiologia:
"Lingua e Parole: evidentemente ciascuno di questi due termini non trova una completa definizione se non nel processo dialettico che li unisce: non c'è lingua senza parole, e non c'è parole che si situi al di fuori della lingua...". Insiste quindi, il Barthes, su questo elemento sinergico, di reciproco allaccio e comprensione tra i due termini, parlando di questa comprensione reciproca imprenscindibile e poi, ancora oltre: " La Lingua non esiste perfettamente se non nella "massa parlante", bellissimo questo magma, quasi indefinito di vibrazioni fonetiche e vive,  come pesci colorati in una vasca di neon, e ancora più avanti: D'altro canto la lingua è possibile solo a partire dalla parole: storicamente i fatti di lingua (è la parole a far evolevere la lingua), e dal punto di vista genetico, la lingua si costituisce nell'individuo mediante il processo di apprendimento della parole che lo circonda, citando poi le fasi del bambino al quale non si insegnano mai prima la grammatica e il vocabolario nelle fasi iniziali dell'apprendimento. (Stesso interessante approccio quando ci si accosta al parlato vivo e scorrevole - speak fluently- di una lingua straniera nuova senza partire necessariamente dall'ortodossia e dalle regole).
Dunque, sull'approccio e sull'investigazione semantica: a volte potrebbe apparire come qualcosa di ostico, sfera opaca di analisi quasi ammantata di scientificità e di oscuri debiti o rigori verso una tradizione dimenticata per distrazione o per troppa impazienza, avvertita come lontana o sfumata. Ma invece mi accorgo sempre di più di quanto sia preziosa l'ampiezza di una certa prospettiva dell'ingranaggio linguistico - come alternativa di veduta verso spazi più aperti e non mero procedimento autoptico - soprattutto di questi tempi, forse come atto d'amore per la nostra meravigliosa e preziosa impalcatura linguistica, sottoposta a continue flessioni semantiche, distorsioni e piccole silenti violenze, inflitte di furia, per la fretta di arrivare prima, di rendersi potente per il tempo impiegato nel messaggio e non per la sua cura e dedizione nello strutturarlo e definirlo - basterebbe guardarsi intorno, soprattutto in rete, per rendersi conto di quanta poca attenzione e quanto poco amore si impieghino nella costruzione delle frasi e del loro contenuto, forse per l'immediatezza dello strumento, nella sua apparente semplicità di utilizzo con riscontri sempre più istantanei e prevedibili. A volte si scrive un po' come si fischia, questo può essere suggestivo ma a lungo andare stanca. La tensione di molti che scrivono è associata all'urgenza di una risposta, di un riscontro quasi fisico, che trascende dal proprio bagaglio culturale e dalla propria storia -intimità lessicale - inserita nelle parole utilizzate e putroppo molti editori, (anche piccoli, purtroppo) si accaniscono sulla stessa ossessione nei confronti di quell'eventuale acquirente che dovrebbe avere il frutto già sbucciato, tagliato e zuccherato nel piatto, come se  non  fosse più in grado di aprirselo da solo, nel 2010! Sarebbe invece bello imparare a scrivere porgendosi invece delle domande, che forse non avranno mai risposte precise o immediate o alle quali risponderanno, semmai come risonanze, altre nuove domande incompiute che non saranno al contrario delitti affrettati e senza movente al proprio prezioso silenzio. Trovo, personalmente, in ogni parola che scrivo, un senso profondo e a volte minaccioso di grande responsabilità verso l'altro, il qualsiasi altro, "lo sconosciuto" a cui Roberto Calasso rivolge il suo lungo messaggio editoriale. Ed è per questo che non mi sento mai pronto al passo, neanche adesso che sto chiudendo questo semplice e tortuoso post.
I'm awful, sorry...
l.s.

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