lunedì 1 febbraio 2010

Micòl e la grande malinconia di Bassani

Da un'edizione Einaudi molto bella, del 1962: la scrittura precisa che sfila nel cotone, narrandosi come in un disegno, mai calcato ma accennato, senza sbavare né debordare o intrattenersi o trattenersi troppo, seguendo invece la bellezza e il tempo naturale di quei visi, come se fossero già perduti: anche Micòl, è tutta sfumata nella stessa rarefatta misura del pastello, nel gioco di quelle luci basse come se appena accese, nell'assestarsi  il centrino delle prime volte o nella pioggia forte durante la visita alla rimessa e attutita di colpo con l'ingresso da soli nella vecchia carrozza: "Poi, senza cambiare posizione, le braccia raccolte attorno alle ginocchia abbronzate come se sentisse un gran freddo (era in calzoncini corti e maglietta di filo, del resto: con un pullover annodato al collo per le maniche)...". 
Tutto si svela e si rivela nel tocco preciso ma mai troppo gridato o gradito, è come un accenno che va avanti da solo e solca di quel giusto, restando così dolorosamente indimenticabile - difficilissimo equilibrio, credo, specie quando la foga dell'espressività è così calda e urgente, come nel caso specifico del Bassani con i Finzi-Contini - e la naturale incantevole prospettiva dei personaggi, intagliata nel tempo  e nella sospensione dei paesaggi interni-internati, mai uguali e come se tutti un po' in controluce: "Rimanemmo qualche attimo così, in silenzio", così scriveva, poco prima dell'altro passaggio citato. Li avverto ancora tutti come fotogrammi impalpabili e sempre più vivi, in sequenza e in armonia con un accuratissimo lavoro sulla memoria dei luoghi e degli eventi attraverso il maglio affettivo dell'elemento umano. Non è mai semplice strutturarlo in questo modo. Ancora più nitide le dinamiche, gli spostamenti rapidi o appena più appannati, a volte come ripresi dall'alto o a distanze diverse, dalla patina fumante-invernale di un grande vetro veneziano - Micòl, Alberto e il campo da tennis e ancora la magna domus e i suoi alberi diversi dai tanti nomi imparati a memoria - adesso come entità mutanti e vicine, parallele ai relativi destini di dispersione e di futuro -ma forse sottilmente già latente e quindi presente - disfacimento e poi  abbandono.
Un ultimo bellissimo passaggio: "Quando la larghezza dei viali e dei sentieri lo consentiva, pedalavamo appaiati. Io guidavo spesso con una mano sola, tenendo l'altra appoggiata al manubrio della sua bicicletta. Nel mentre parlavamo: di alberi, soprattutto, almeno da principio". Mi piace ricordarla così...
Ecco perché non penso non ci si possa innamorare di questo Bassani, della sua "Scrittura della malinconia", come con grande eleganza e sapienza ne ritrae le caratteristiche Anna Dolfi, in un suo bellissimo saggio: "Giorgio Bassani. Una scrittura della malinconia".
l.s.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

pennellate sapienti color pastello il tuo commento a Bassani. Francesco

sandra ha detto...

Micol: viva, vivissima.
Grazie di cuore per questo post.

(Non ho una prima edizione, ma è comunque quella con l'acquaforte di Morandi. Molto vissuta.)

luigi ha detto...

Grazie di cuore a entrambi.
Sandra, l'edizione a cui alludi dovrebbe essere esattamente quella in mio possesso: molto vissuta, come dici tu. L'anno di prima pubblicazione infatti fu proprio il 1962, lo stesso anno della vittoria del Premio Viareggio, pensa...
luigi