giovedì 15 agosto 2013

Cluster


In un processo espressivo avverto sempre il desiderio di mostrare qualcosa di celato, che si vorrebbe predominante, o che vorrei comparisse predominante e commestibile per una certa illogica economia e costumatezza di suzione. O, al contrario, di celare quello che appare predominante e poco fascinoso della mia propria  e prima persona che si esprime, in cambio di un lato diverso, ottimale,  impalpabile, ma ancora fulgido e ignoto.
La tenaglia del confronto con una certa platea fantasmica di manichini sottomessi, traccia spesso i segni sbiaditi di una strada labile e sabbiosa, confusa, come gli aloni tenui di un'orticaria in via di guarigione sulla pelle di una bellissima ragazza. Esprimersi in relazione a un certo ascolto, comporta un'inevitabile interferenza e cambio tragico di rotta, un delittuoso tradimento alla propria maledizione di credere ancora alla parola o a una qualsiasi forma di struggimento ad un linguaggio elettivo, come alla leggenda del chiodo arrugginito corroso e polverizzato dalla Coca Cola.
Quello che spesso di me viene riconosciuto, è così lontano da quello che davvero vorrei, anche se ancora non so quello che davvero vorrei fosse riconosciuto di me. Così succede che si è amati per caratteristiche lontane dalla nostra natura, per fattori che non immaginiamo ci rappresentino e che in qualche modo non riconosciamo nemmeno come parti buone e naturali di noi. E quindi, allo stesso modo, gli aspetti attraverso i quali desidereremmo essere predominanti, palpabili e indimenticabili, quindi forse riconoscibili e personali, sono gli stessi che ci inseriscono di diritto nell'elenco dei cattivi o peggio degli insignificanti strimpellatori. 
Eppure, mi dico, a volte: a cosa potrà mai corrispondere questo post o anche solo questo piccolo paragrafo, come nettezza o nitidezza di accordo nella dimensione di uno strumento musicale? A una chitarra scordata, che latra canzoni fra le dita nervose di un adolescente? O  a una tromba lontana di un concertista, alla sirena  di un antifurto, al fischio di un metronotte?
Come verificare e rettificare l'effetto di quello che dico e confrontarlo con il ronzio di quello che immagino e che penso di dire? A volte la separazione è fatta di chilometri, dirupi e scogliere a picco tra quello che si credeva e quello che è invece accaduto, tra il proposito e l'esito efferato del mio dire, intere distese boschive di rovi e di  notti nere. Come sbracciarsi da una scogliera, con il sole negli occhi, senza vedere chi ti raggiunge con la voce, nemmeno la sua figura, la sua altezza, eppure c'è qualcuno, non è nitido ma credo che avverta dal movimento del mio braccio tutta la mia febbricola di nuoto nell'aria azzurra di questa morte, tutto quello che il mio gesto disegna o che forse disdegna di me. Una donna che mi è accanto, si slaccia il costume nero e si addormenta con i capelli bagnati.
Scende la notte, ma non c'è nessuno. Un filo di radio da una barca, l'odore di una cena, una sola candela. Come qualcosa di non vero ma di forte, davvero:

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