mercoledì 31 luglio 2013

Isola ed evocazione del segno

La sagoma di un'isola ha il profilo celeste. A quest'ora, nel vento, non sembra fatta ma sognata.
Le parole cercano di resistere a quello che un'immagine accenna o accentua. Eppure la forza evocativa del segno è proprio quella che dispensa maggiore profondità nell'immaginare quello che sarebbe o che potrebbe essere, al di là del suo semplice visto e suggerito all'infarto fiutato del codice, del suo fato. Se invece, al posto di quel timido rigo del mio inizio, avessi inserito una foto perfetta e luminosa dell'isola in questione, avrei ottenuto un effetto completamente diverso. Avrei dato una definizione dell'isola molto meno esatta, accurata e precisa di quella che adesso vedo, sento e concedo a qualche mio sparuto lettore, pur nella sua incertezza e vaghezza. 
il rarefatto contro l'esatto di un fatto: non si tratta ora di una precisazione tecnica, ma del fatto che quell'occhio che scatta non ha visto quello che io sento, guardando l'isola. Anche se la foto eventualmente inserita fosse stata scattata da me, in prima persona e nello stesso istante di visione, non avrebbe raggiunto, con la stessa dolorosa facilità, l'evanescenza evocativa del simbolo, la sua sagoma nel mio guado, è il caso di dirlo, che ha sempre un suo sottosuolo parallelo e insieme alternativo, primigenio di pura espressione autoctona e antieconomica. La descrizione con la parola ha una grana antica e anche molto moderna di sottomissione e alterazione del reale, tra l'istante di suzione dello stesso, al passaggio traumatico verso lo schizzo vivo. La possibilità di scomposizione dei fattori descrittivi, più che la facoltà di comporli, rimane il miraggio di chi vuol far vedere immagini attraverso il buio di un segno. La fotografia ha modificato e marcato il territorio pittorico, così il cinema ha rinfrescato lo sguardo su certi territori, o forse da Baudelaire sarà nato l'impianto primo del moto limpido nella tenebra, le prime penombre di candele alla finestra, la poetica del comune, del reale ordinario e svogliato che diventa altro e che trascina l'occhio in un ruscello fognario ma insieme stellato e metasublime.
Lavorare col segno per restituire all'isola la dimensione ventilante e insieme vacillante del presente, può comportare cesellature infinite e spasmodiche, a patto che il risultato non sia una stanza chiusa, ma la promessa di un'altra nuova isola, ripresa, attraverso quella sagoma, in un altro profilo, in un altro celeste, in un'altra ora, in un altro vento, in un altro fatto, in un altro sogno e relativo segno di sogno.
Da qui, forse, si possono misurare le smisurate potenzialità di un occhio surreale e assediante, come unico (anti)metro ancora attendibile per definire e smisurare il  fato del reale, o destinare,  e non saremmo poi così lontani, la tremolante figura del primo rigo di questo post, al disegno impreciso di un bambino di quattro anni, disteso per terra, che probabimente avrà scambiato e scanzonato la stessa sagoma per un mostro marino, per una grande nave pirata, una  macchina spaziale o una balena.

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