Ci guardammo, con l'uomo cupo e padre o mesto patrigno delle trafitture, non appena entrò muto nella stanza di Simonetta, dove ci eravamo trasferiti. Lo strapiombo del suo viso assonnato di chanson triste, profumato di boschi bagnati da temporali, ancora rabbuiato. Gli occhi pressati dal calco della mano bianca che riscalda e schiaccia i pensieri di chi ascolta l'opera lirica da solo, nel semibuio di una grande stanza dai lampadari antichi e ancora tutti spenti. Il soffitto alto. Il riflesso dell'ultima luce naturale nei vetri della cristalliera. Le tazzine e i bicchieri frullanti con i violoncelli e con i contrabbassi, in un lungo sgorgo omofono; e intanto sua figlia lo assaliva e lo toccava nella faccia e nei capelli tristi a spazzola, e poi se lo abbracciava, guardandomi a tratti, sbandando lo sguardo sporco e orfano, come aveva fatto prima con il cane Lampo e adesso anche con me, per sciogliere quell'attimo sospeso di tensione e di forte euforia.
"E' stato lui che lo ha portato, è stato lui, papà! Si chiama Plamf, non è buffo come nome, papà? Il nome di un orsetto o di un coniglio: Plamf”, e io mi sentivo la sua voce e il suo sorriso artigliarsi nella gola, quando cercavo di sfuggire lo sguardo burrone dell'uomo padre".
Virginia Woolf a Gaza
6 ore fa
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