sabato 17 settembre 2011

Qualche spunto

Qualche spunto.
Mi guardo intorno e avverto la rettifica di standard e di corporazioni che attestino, sublimino, incorporino alla perfezione i dettagli delle singole voci. La scheda del giudizio. La ginnastica d'ansia di chi non è ancora corporato nella purezza calcolata tra le singole parti, o nella bellezza del vizio che fa scena, e che diventa pregio o eccezione di lusso per uno scherzo di luce pulsata, una rifrazione. Sento in tutto questo lo spasmo di una corsa. Ma non di quelle silenziose, del buon mattino, ma di quelle ferrose, che battono il martello nelle parti meno mobili, che non siano legate agli arti, ma alla zona di pensiero dove ingegnare l'aderenza alle regole del caso definito. 
Credo che nessun tipo di approccio del genere, possa darmi vita, gioia o respiro. La bellezza del silenzio, anche se scalciato, in molti casi sì. Il ginocchio sbucciato nel pantaloncino che giustifica la sosta. Parlare o scrivere tacendo. Senza zone di confine - o di confino. Perdendovisi e non cercando strade da indicare, ma boschi rossicci e notturni in cui sprofondare.
Ancora qualcosina:
la semplicità. Decantata e codificata come farmaco miracoloso, stampella o by-pass coronarico per scrittori in erba. Che cosa è davvero semplice? Come si usa questo fermaglio della semplicità? Dove comincia e dove finisce, e quanto lontano o vicino, dal proprio possibile mood di scrittura?
"Il mio cane è molto veloce. Risponde come un'eco ai miei frequenti lanci di bacchetta d'acero". Forse, potrebbe mettere d'accordo, con qualche smorfia, ma non è ancora scandaloso quanto:
"I suoi occhi scuri, come animali (o cavalli) vivi, con dentro la nausea cupa dei cieli", adesso ci si allontana, ma di quanto dalle possibili alternative, tipo:
"Il mio cane è molto veloce. Corre come un lampo/ una lepre/ un coniglio/, dopo i miei lanci... Forse più chiaro, ma meno risonante, o mi sbaglio?
O ancora:
"I suoi occhi scuri erano/sono/ molto vivi". Il concetto rimane. In effetti raggiungo la destinazione esatta del colore, asciutta, scandita, banale, ma a quale prezzo? Quanto smuovo quel colore dalla possibilità di quel termine? Quanto sbavo il colore degli occhi alla luce o al cattivo tempo? Quanto respiro o possibilità di schiarirsi, ridursi, intensificarsi, sporcarsi o inabissarsi, darei a questo colore, per il solo costo di un'entità di intellegibilità o maggiore comunicativa di sorta? Credo con fermezza nella chiave segreta di una comunicazione. Molto intima nella sua fragilità, per cui il rischio che si infranga alla prima vibrazione.  Una chiave privata, nascosta, forse scabrosa, ma unica e velata per un percorso autentico di ricerca: solitaria, credo,  verso cui si è condannati a uniformarsi, spesso contro la propria volontà, in un certo punto del percorso. Senza referenti, confronti, consensi. Credo che il viaggio cominci nel silenzio. E finisca nel silenzio. E sia fatto o rarefatto di silenzio. Profondo.
Non credo, quindi, nella chiarezza (o nell'oscurità), nella semplicità o nella complessità, come formule chimiche ma avulse e precostituite; quelle le avverto come strade senza uscite.
Tutto qui?
p.s.
Solidad-Soledad:
(da una vetrata gotica, in Provenza)


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