mercoledì 21 settembre 2011

Giusto ieri sera...

Ancora poche righe, questa mattina, su di un aspetto che mi fa gola, nel termine più rude e fisico, tra i vari aspetti che affliggono e alcune volte divertono le mie solitarie riflessioni. Condivise diverranno visibili o forse anche risibili, ma questo dipende dai punti di vista, e da circostanze che non potrò controllare.
Dicevo di quest'aspetto: la volontà personale sulla parola scritta,  o la volontà selvatica e irrazionale della parola sulla persona che scrive? Giusto ieri sera mi rimbombava il tema di questo post, come un preludio di tuoni, pensando quasi di non uscirne vivo. In effetti sono sempre intenzionato a cominciare e coricare la parola del discorso scritto, almeno in una fase propositiva, appena prima dell'atto fisico e (in)finito del deposito, in un certo pensiero o filigrana calante di pensiero, o ricordo, più o meno ispirato o motivato a rimanere vivo nel tempo di calata del polso. Ma la mia volontà, quella legata alla natura di quella parola o di quelle parole che faranno struttura o alleanza, non sarà mai troppo precisa e costante, o comunque non sarà sempre irradiata dallo stesso flusso cosciente e quindi non sarà necessariamente e sempre premeditata o bramata come soluzione o verità. Non sarà soltanto mia, ecco il punto!
Mi pare duro il concetto di volontà, mi risuona simile alla potenza o alla forzatura della parola, come a ciottolo di fionda in una sassaiola. Quando la parola è pensata, prima di posarsi, lo stadio di incertezza si offusca, di colpo prende fuoco, ma lascerà sempre spazio ad altri interventi, ad altri polsi, ad altre mani e volontà, spesso inscrutabili o figlie di azioni e di vecchie frequentazioni sopite. O sarà quella parola, la prima o la seconda, a prendermi il braccio e ad illudermi di essere fiamma filata dal mio fuso o luce della mia vita? E che dire, a questo punto, di quelle che pensavo e che non ho scritto? Avranno lo stesso valore di quelle scritte ma che non ho pensato? 
Ebbene è questo piccolo circolo vizioso, che mi sfida all'esplorazione, al divertimento nel sentirsi vivi nel prendere e nel lasciare questo candelabro acceso nel buio, e farlo tremare sulle pareti, facendo attenzione che non sia la mia mano a farlo scivolare sui capelli di qualcuno che passa. Non credo che il deposito di parole e di conoscenza dei significati delle proprie parole, possa nemmeno quantificarsi. Non la vedo una forma di possesso tale da potersi quantificare. Non si conta in numeri la sensibilità del conoscere e del sentire attrazione per la conoscenza. La sento una forma di affetto, profonda e sfuggente, una forma di incantamento o di piccola malattia. Ma sarà la mia sensazione di traghettatore o di traghettato, a lanciarmi dei segnali qualitativamente importanti, che forse non avrei potuto cogliere in altro modo, e anche se solo per qualche istante, ma con quella stessa limpidezza, anche se svanita. In fondo rimanere nel mistero del timoniere, nascosto nel fumo della sua tempesta, è l'unico metodo per abbandonarsi a questa magnifica alternanza di volere e di sottomissione ad altro, che potrebbe armonizzarsi ancora in qualcosa di migliore o di diverso, che potrà farmi del bene.
È tutto. Credo di sì.

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