mercoledì 20 giugno 2012

L'azzurro e l'autunno della notte: appunti da taccuino

 Il grande disagio che mi prende nella fase di ripristino di alcune storie, è dato in primo luogo dalla nostalgia della dimensione emotiva in cui le ho tenute per diverso tempo in premurosa gestazione; fattore pluridimensionale, in questo caso specifico, che lascia una scia molto forte anche a certe distanze, qualsiasi dimensione rappresenti il movente padre di ritorno e di intervento preciso su quel luogo, – in questo caso sarebbe corretto dire su quella luce di luogo o vago topos luminoso dove il lavoro nasce e poi affonda, come sott'acqua. In effetti con "L'azzurro della notte", ho rotto, senza deciderlo e senza saperlo ancora mentre lo facevo, alcuni freni inibitori della mia sensibilità e percezione del reale di quel preciso momento, gestendo e tradendo nell'azzurro anche l'autunno del cielo, la modalità febbrile di una massa opaca e crepuscolare riversata dagli ambienti aperti ai movimenti interni di tutti i personaggi del ghetto e dell'oltreghetto. L'azzurro è quindi l'autunno del ghetto ebraico e ombroso, dalle tegole bagnate, dai vetri e dagli interni assediati. Un colore stagionale, come di una specie autoctona quasi estinta.  Non esiste più un cielo che grava ma un cielo in cui si affonda come in un cuscino.  Questo è stato l'aspetto più complesso e rischioso di tutta l'elaborazione dimensionale della storia, che risulta letteralmente bagnata da questo tipo di sguardo mutante sulle cose e sulle persone. 
La copertina di questo lavoro, ormai prossimo alla pubblicazione, è una fotografia di Alessandro Mitola: Curves, di cui ho già scritto in precedenza, dove si evince tutto l'autunno di questo azzurro.

2 commenti:

Marco ha detto...

La scrittura mette alla prova la nostra capacità di critica, e la nostra volontà di migliorare. Credo che sia ovvio il disagio quando torniamo a vedere una storia scritta da noi. Il mediocre scrittore non ha dubbi, non ha volontà di migliorare perché tutto è già perfetto e la critica deve esistere solo per elogiare.
Spesso "rompere", lasciarsi andare, può sembrare pericoloso, ma un autore con un minimo di amore per la parola deve osare. Sa che diventa necessario alzare l'asticella, o si rischia di produrre solo frasi, ma nessuna storia.

luigi ha detto...

Certo, Marco. Una sorta di travaglio costante, di disagio: in ogni fase vi è sempre quella lacerazione, quel tipo di sconforto, ma che è anche molto più nutriente di un appagamento spicciolo e superficiale. Anche in certe scelte e in certi azzardi, vi è una gestazione complessa di dubbi, ripensamenti, indecisioni, ai quali finisco per affezionarmi. Alla fine oso lo stesso e imparo qualcosa nel rischio.
saluti,
l.s.