domenica 12 novembre 2017

Lettera a Dino


Non ti ho mai visto, se non in una foto. Una foto che ho guardato solo quando non c'eri più. Se tu ci fossi stato non ti avrei mai guardato in una foto e nemmeno dal vivo, forse. Ma questo adesso non posso dirlo. Oggi è domenica, nella strada c'è silenzio, ma ogni tanto, da una casa con le finestre aperte, una donna grida contro un figlio o contro il marito. Poi smette e ritorna la pace di te. E dentro questa alternanza di silenzi e di grida, ritorna il tuo viso, in questa domenica di novembre. Non quello della foto, ma quello della nostra amicizia, che è cominciata in questo mistero e che continua, senza finire mai. 
Non mi hanno insegnato come si fa a farsi amico uno sconosciuto, una persona che hai visto in foto soltanto quando non c'era già più, quella stessa che se poi ci fosse stata nemmeno avrei mai guardato in foto e nemmeno dal vivo, come ho già scritto. Ricordo che a tredici anni non avevo amici e mio padre, che era il mio migliore amico, passeggiava con me e cercava di aiutarmi a trovarli con le sue parole e con il suo amore. E in qualche modo in quelle passeggiate vi era la speranza di trovarli e insieme la disperazione di non averne. Adesso, con il sentirti amico, in questo tuo non esserci, si uniscono in un solo ritorno la disperazione e la speranza dei miei tredici anni, fondendosi in qualcosa di lontano, ma anche di profondamente intimo e sognante. Il pensare a quello che diresti di me, delle parole che in questo momento scrivo e quanto ti facciano sentire vivo, oltre la soglia agghiacciante del mistero con le sue distanze incolmabili che ci avvincono. E quanto rideresti o quanto ameresti la profonda nostalgia di un ragazzino mai conosciuto, che mi è diventato amico speciale solo attraverso la sua assenza. La tua assenza, di trentaquattro anni, è la nostra amicizia. Il fatto di non averti mai parlato e conosciuto, è la nostra amicizia. Di non averti mai chiesto com' è il gelato di Mennella, per esempio, o gli spaghetti a vongole con dentro il tarallo sbriciolato della mia trattoria preferita, ecco, anche quella è la nostra grande amicizia incondizionata del ritrovarci dentro questa assoluta impossibilità, così vicina a quella di voler capire o imparare l'amore. Ma tutto questo che sento, tu in qualche modo lo sentirai? Ti sentirai di avere un amico in più, oltre le patine di queste lunghe nebbie italiane, che si addensano oltre le tenebre dell'abisso? Sarà una lettera che sto scrivendo a un amico, questa, o un esercizio di respirazione, per sentirmi amato dentro un dolore così difficile, per uno sconosciuto di una terza media mai sciolta? Ma perché sconosciuto, poi? Oggi, in questa domenica, potrei incontrarti in chissà quanti istanti o piccoli frammenti illuminati che non mi aspetto e che mi dicono di me e della tua vita, come nello specchio verde e rosa di una darsena. Forse perché nel disordine di questo amore si smuove sempre qualcosa, un affare sabbioso che ti entra negli occhi e non va più via, a volte anche per giorni. Potresti diventare una cosa nell'occhio, insieme ai tuoi compagni di classe e di scuola: una cosa nell'occhio che ogni tanto ritorna e dentro quel dolore ti fa vedere meglio le cose piccole, che ti amano anche se non ci sono. Ed è per questo che ti sono amico, e che ti sarò sempre amico, nonostante o soprattutto questo nonostante così divorante, in cui, proprio non essendoci, tu profondamente ci sei, perché ci sarai sempre stato, ad aspettarmi da una delle tue prospettive notturne, dalla cima di una ruota paronamica o di una montagna, o dentro il locale dolce di Alfredo, dove c'era un gatto stranissimo che fumava sigarette. Ancora prima di tutto quello e di tutto questo e di quello che non abbiamo ancora capito, analizzato, sezionato, ma che ormai ci rappresenta, come la prima stella da una finestra rotta da una tua fiondata, o  quella costellazione di lucciole, rimediata da una tua scatola di biscotti inglesi,
questo mio ti voglio bene, che non finisce mai:

Luigi

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