domenica 22 gennaio 2017

"Vento forte tra Lacedonia e Candela: esercizi di paesologia", di Franco Arminio.


Franco Arminio
Nelle feritoie di questo bellissimo libro di Franco Arminio "Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di paesologia", acquistato la scorsa settimana a Napoli, nella sua prima edizione 2008, ho respirato un'aria nuova, ma che in fondo mi mancava  da tempo e che ho riconosciuto come qualcosa di caro e di già vissuto. Quell'aria misteriosa che tocca l'umore, quando ventila tra due porte aperte e asciuga i pavimenti appena lavati, o dal buio pesto di un vicolo, come filo di un respiro antico che soffia tra le rovine e dalla cruna fobica del suo ago.
L'aria tersa dell'Irpinia di Arminio mi risuona come territorio e stato controverso dell'anima, essenziato da un coma che ne sospende in alcuni luoghi la vita e la morte in uno strano interregno che le trascende. Ed eroso da quel vento da lupi che irrompe già dal titolo e che accompagna nel suo giogo la falcata sana di un cammino lento e appena ruvido di speranza, di quella speranza difficile ma ancora presente all'appello, anche se dalle segrete di un ultimo banco.
Ogni rintocco di questo viaggio ha dentro di sé la pietrosità della luce cruda sul dirupo, in uno sguardo illuminato di scrittura che va sempre lontano e che trafigge le stesse cose da cui è trafitto, lo stesso impulso dolente e creaturale di resa. E poi, spesso a inizio di ogni capitolo e anche nel mentre della scorsa, affiorano come sprazzi azzurrati di neve queste manciate di versi, nelle trame lunari di paesaggio e dei suoi fantasmi, che risalgono a fatica l'abisso:

Salendo verso la fine del paese
il silenzio è così forte
che si sente assai vicina
la calma della nuvola
che ha partorito la neve
e la nasconde dentro le cantine.
Paese chiuso, seduto sull'osso
dove non cresce neppure la rovina.
Sono venuto qui a pregare
su questo altare
oggi che il vento è così forte
e sparpaglia pure le ossa dei morti
nelle bare.



Franco Arminio, in questi esericizi ispirati di paesologia, ha lavorato a questo affresco con un utilizzo delle parole misurato e prudente, facendo sempre attenzione a non rompere mai l'incanto, ma nemmeno a forzarlo, e a stagionare ogni suo passo dentro quella stessa mota dell'animo e della memoria, dove affiora e poi scompare e riappare il senso – e dissenso – funesto del sacro, di cui si essenzia e insieme si districa questo scenario muto e divorante, sempre così stabile nella poesia e nella disciplina del suo disfacimento. In questo tacere così intenso, la parola svela il tuono del suo fendente e insieme serba il suo segreto crudele, la sua faglia sismica che solca i cuori, i visi degli anziani, le gambe tristi delle ragazze dentro lo spleen soffocante della prima sera.
Mi è difficile scegliere tra i tanti tratti rappresentativi di quest'opera che mi ha così innamorato, così ricolma di saggezza, di storia e di poesia, come di quella sobria delicatezza che alla fine non si dimentica. Ne inserisco un frammento qui di seguito, relativo al capitolo in cui Arminio parla di Castelnuovo di Conza. Lascio con queste parole la sintesi di questo mio piccolo quadro, sperando di averne lasciata incontaminata la sua preziosa risonanza, il palpito chiaro del suo cantus firmus:

"Sto in piazza Umberto I, una piazza senza insegne e senza abitanti. Sarebbe bello stare in questa piazza con una donna, prendere insieme questo silenzio e questo sole. Io trovo questi posti estremamente romantici, credo che non ci siano luoghi migliori per amarsi".















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