venerdì 23 settembre 2016

Riflessioni sparse sul senso della pubblicazione, dell'autopubblicazione e della non pubblicazione (Parte III)


Lo scrittore Mario Vargas Llosa

 Partirei con un pensiero dello scrittore Mario Vargas Lllosa,  su cui rielaborare il discorso e  poi riagganciarlo all''interno della nostra traiettoria:

" [...] I premi, il riconoscimento del pubblico, le vendite dei libri, il prestigio sociale di uno scrittore hanno un percorso sui generis, quanto mai arbitrario, perché talvolta evitano tenacemente coloro che più li meriterebbero, e assediano e opprimono quelli che li meriterebbero molto meno. Perciò, chi individua nel successo lo stimolo essenziale della propria vocazione, probabilmente vedrà fallire il proprio sogno e confonderà la vocazione letteraria con la vocazione per gli splendori e i benefici che la letteratura concede ad alcuni scrittori (molto pochi). Sono cose diverse. Forse l'attributo maggiore della vocazione letteraria è che chi la possiede vive l'esercizio di quella vocazione come la sua migliore ricompensa, superiore, molto superiore a tutte quelle che  potrebbe ottenere come conseguenza dei suoi frutti".

In questo modo sprofondiamo nel pieno della questione. Nel suo cuore, direi. Il gioco è questo: bisognerebbe investigare quello che davvero sia predominante in questa attività, che non sempre e necessariamente sarà vissuta nello stesso modo da tutti gli scrittori, questo d'altra parte sarebbe assurdo. E non è detto, quindi, che sia per tutti una reale vocazione, ma qualcosa di lievemente o abissalmente diverso, semmai anche per tutti coloro che si sentono intimamente "vocati" allo scrivere, potrebbero esservi delle sostanziali sfumature nelle intenzioni, per esempio. Una vocazione che potrebbe spingersi su litorali diversi, quindi meno spirituali e più materiali, forse. Abbastanza diversi, direi, da quella "vocazione" legata alla letteratura come principium. Questo è un elemento fondamentale su cui riflettere. Cercare di interrogarsi dentro e capire da che parte si sta. Di cosa si parli e quindi di cosa poi si scriva. Quale sia la fibra di questo seme. Prima di ogni passo, di ogni programmazione.  Qual è la mia vera vocazione? Per cosa io mi sono impegnato, dannato, annientato? Che cosa mi aspetto, adesso? Cosa c'è da aspettarsi, soprattutto? O forse, per alcuni, da pretendere?
Dunque:
non credo che al momento attuale, per quello che sia lo stato delle cose, a livello dello scenario socio-culturale e artistico del nostro paese, per uno scrittore X che si accinga a combattere per cercare, oltre all'appagamento naturale,  una reale condivisione dei propri lavori letterari, vi siano delle certezze, delle possibilità che lo portino a considerare la percezione del suo seme in relazione alla possibilità di un concreto e adeguato riscontro del suo frutto. Giocano troppi fattori contro, diversi, molti o una buona parte del tutto estranei alla letteratura e quindi dal seme e dal frutto e dall'albero su cui si organizzerebbe il campo di questa vocazione, purtroppo. Troppi, davvero, e spesso impenetrabili per potersi affidare a questa possibilità come a qualcosa di raggiungibile nel concreto, in base all'esercizio profondo della propria vocazione, come della propria sincera abnegazione vissuta all'interno della propria officina incantata. Tra l'altro, al di là delle componenti extraletterarie accennate,  non tutti i semi avranno lo stesso frutto e matureranno allo stesso modo. Le condizioni climatiche avranno la loro inevitabile influenza. Così come la qualità di un seme potrebbe essere pregiudicata da un terreno troppo argilloso o male esposto, per quelle che sarebbero le sue caratteristiche, per le sue inclinazioni, fragilità o tendenze vitali innate di espansione. O potrebbe capitare che un passero atterri e dopo un paio di saltelli  se lo ingoi. E allora? Amen! Anche questo va messo in conto, signori!
Questi elementi con tutte le loro possibili varianti, li avvertirei già sufficienti come adeguato approfondimento sull'esplorazione del suo movente. Su quelle che potrebbero essere le condizioni per continuare, sapendo che lo scenario che si prospetti sia questo se non peggiore: la certezza del vuoto, o la flebilissima possibilità di qualche riscontro, molto tiepido, incerto, impermanente, se non illusorio o al limite del tutto casuale. Instabile, come lo è il tempo e come lo è la vita, sia di un artista che di una persona comune. A volte anche il talento lo è.
Penso che questo atteggiamento di fondo, sempre per il nostro caro scrittore X, sia già una prova importante per conoscersi, per capire meglio i suoi orizzonti e le sue caratteristiche di specie per resistere a queste circostanze avverse, al di là del suo valore, di quello che egli avverte come valore in quello che fa o in cui si crede capace e riconoscibile, semmai molto più capace di altri, per un quadro particolare che si è cristallizzato nella sua mente – altro dramma molto comune, purtroppo, e lì si apre un altro doloroso capitolo.
Ma una volta appurata la reale impossibilità, quanto meno a breve, brevissimo termine, di una condivisione del proprio frutto, questo cosa vorrebbe dire per i suoi programmi? Scrivere lo stesso, sapendo che sarà difficile, se non impossibile riuscire a pubblicare, almeno come lui vorrebbe?  Per cui, come diceva Vargas Llosa, godersi come ricompensa lo stesso atto creativo e di per sé liberatorio, riconoscendogli un suo valore intrinseco e assoluto, quindi incondizionato? O forse questo potrebbe non bastare? Non essere sufficiente e quindi nemmeno avvertito come qualcosa di giusto e di certo inadeguato per appagare tutti gli sforzi, i sacrifici offerti a questa misteriosa divinità, che lo costringe a immolarsi, togliendogli tempo, luce, spazio vitale e respiro, ma senza dargli ancora niente di sostanzioso in cambio? Nemmeno una minima prova che quello che ha fatto abbia un  senso e quindi che meriti un piccolo spazio da qualche parte? (È chiaro che in questo secondo caso ci imbattiamo in una tipologia di scrittore piuttosto diversa dalla precedente, ma che credo rappresenti una buona se non cospicua quantità di aspiranti scrittori. Questo a mio modesto parere, o per quello che sono riuscito a capire guardandomi intorno, sia in rete che nelle strade della mia vita, è parte del quadro attuale. Parlo di uno scrittore X che si basa solo sul suo tormento o eventuale talento di scrivere, senza avere altro oltre quello.
Scrivere, sapendo che non sarà per niente facile pubblicare, se non impossibile, secondo i criteri tradizionali dell'editoria, – dubitando nel contempo, in seguito a questi ostacoli, che forse sarà il suo talento, se non la natura della sua voce a non funzionare, a non essere adeguata nemmeno per concedersi una piccola pubblicazione, se non quello di chi lo ha eliminato – sarà ancora possibile? Di farlo con lo stesso ardore con cui lo faceva?  Ancora prima di confrontarsi e di svelare l'arcano? Il quadro nero e reale delle cose? Avrebbe ancora un senso?
Stavolta mi fermo qui. Per la lunghezza media di un post, stavolta preferisco non trasgredire troppo le regole di gioco, come invece faccio di solito in queste riflessioni sparse nelle quali perdo davvero il  controllo e il senso del tempo e dello spazio, e rimandare lo sviluppo ulteriore del nostro tema al prossimo incontro.























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