giovedì 15 settembre 2016

Le parole dell'ultim'ora


Di notte la parola sulla pagina muta il suo peso.
Avrebbe l’argento della squama del pesce, quella stessa patina scivolosa, ma anche quello scintillio lunare, che spesso è murato di paura e di opaco, come un debito di gioco.
Da una finestra socchiusa le voci basse delle donne rivestono le case con l'odore delle tovaglie distese su tavoli vuoti. Come queste parole dell’ultim’ora, scritte combattendo il sonno e insieme il sortilegio dei pochi lumi rimasti accesi.
La luna matura i suoi seni e i suoi flussi streganti rianimati da un colpo di scure nell’aria. Sulle campagne aperte si squarcia un grido di ragazzi e di cani.  Forse le luci grondanti di una festa o una fuga cieca verso la costa, per non ritornare mai più. La villa delle suore è deserta. Ascolto e attendo che accada qualcosa. Nemmeno il bagliore dell'ultima colonia. Quel bianco di glaucoma è ancora limpido come un grido di caccia. Così anche la parola dell'ultim'ora: l’ultimo filo di radio, che muore come fumo da una sala corse. Questo spasmo di segni rimane inutile, come lo sarebbe un relitto, un orgasmo a pagamento.
Nel buio potrebbe svilirsi qualcosa di puro, da poter testimoniare a un insetto che risucchi lo scorcio oleoso di una lanterna. Ma a quest'ora non sorgono voci, ma impronte di lupi  bianchi sulle terrazze degli alberghi, contro le ombre mutanti degli ultimi camerieri stagionali. 
Le distanze tra gli spazi squarciano e azzannano filamenti di abisso. Qualche sera fa, dopo una schiarita post-temporalesca, avvertivo il mormorio e i canti di una processione che si stava avvicinando. Un gruppo religioso che avrebbe raggiunto un santuario lontanissimo, verso la montagna, come fa per tradizione tutti gli anni. Dalla mia finestra, tra gli alberi, osservavo le torce accese tra le sbarre di un cancello, dove sfilavano le figure con  la  loro lentezza, i golf annodati sulle spalle, qualche bambino per mano. E poi ascoltare quelle voci sfumare, assottigliarsi e farsi sempre più lontane, nella notte fonda e stellata. Fino a imbucarsi nel labirinto boschivo, dentro quell'orma di mota e di lieve tormento, fino a quando la bocca del santuario non li avrebbe divorati di pace, alle prime luci dell'alba.  
Murarsi in un ascolto attento, sottile, sensibile alla più piccola vibrazione, diventa sempre più raro e antieconomico. Adesso si indossano le voci dai palazzi accesi, con i giochi che scandiscono i tempi della cena. Quelli più fissi e televisivi, con gli applausi a comando e i loro fobici cluster, che hanno sostituito la dolcezza sonora dei cucchiai, delle forchette e dei bicchieri appena cozzati mentre si apparecchia, come gli sguardi lucidi e commossi tra commensali, subito dopo la sorsata di troppo.  
Sarebbe saggio scrivere soltanto nel puro terrore e dedicare questa sostanza di risulta a chi non sa leggere. Agli alberi, alle case diroccate, alle ali aperte dei rapaci. Ma senza altri confini, che non riguardino territori troppo affollati e consenzienti, tribali. Dove non si cerca la mischia, la truppa lobotomizzata, il numero, ma la singola attenzione di una figura in disparte, di spalle, a cui raccontare. Della vita, dei suoni, della sensazione di un istante profondo e incomprensibile, ma anche del proprio talento di poterne tacere. Ascoltando una frase, ma anche una sola prima parola, prima di avvertirne il suo peso, mi piacerebbe valutare se valga più del mio silenzio, della bellezza atomica del tacerla e trattenerla muta, ancora calda di vita e di teatro, come qualcosa di prezioso per il solo fatto di averla negata e sottratta alla luce chiara dei suoni. Bisognerà farsi riconoscere anche nello spegnimento della parola, fino all’ultimo istante prima di oscurarla. Nel suo annegamento, come quella processione sfumata dentro le braccia tese del bosco, verso la gola aperta della montagna. Nella rinuncia. Una parola in meno potrebbe valere molto di più di una detta e tagliata male, in un luogo e in un momento sbagliati, per esempio. La processione ormai è lontanissima. Anche dentro quei passi si annida il silenzio con tutto il suo spargimento di bruma, la potenza muta del gesto di resa. La notte nera del Pascoli, con dentro il suo lampo sulla casa. Anche il silenzio più innevato di chi scrive avrà bisogno di una buona intonazione e di una resa adeguata al suo mistero iniziatico.  È questa traccia muta nel freddo è in fondo la sfida più grande. Rimanere fermi, dove tutto vibra e intervenire quel minimo o solo quando si avverte lo slancio nel contrastare l'idolo del segno contro la perfezione nobile della sua attesa. È dentro quel limbo totemico che forse ci si sente di nuovo a casa. Nel proprio santuario, oltre il bosco. Resistendo invano alla notte, nei suoi ultimi fumi e nei suoi canti.























0 commenti: