mercoledì 15 settembre 2010

Vico Faggi e la sua fuga dei versi

L'incontro con Vico Faggi è del tutto casuale, come tutti i miei migliori incontri.
La sua seconda raccolta l'ho trovata usata -un'edizione Garzanti del 1986 -, nello stesso luogo dove anni prima avevo scoperto una magnifica raccolta di Mallarmè. Non ero al corrente della sua linea letteraria e nemmeno della sua opera di scrittore per il teatro, forse lo avrò incontrato di sfuggita, solo citato. Invece, dalla sua seconda raccolta di versi "Fuga dei versi", adesso scopro un linguaggio originale, e profondamente moderno, ma ancora ben radicato nella conoscenza e "sperimentata educazione classica", da cui scaturisce un mondo espressivo molto raffinato, curato nella forma, negli equilibri più sottili, ma dalla voce chiara e profonda, come se Faggi mi parlasse all'aperto, davanti a una campagna sconfinata.
La sua scrittura è fatta di grandi schiarite, non si ripiega, cammina molto, un passo robusto, antico, ma curioso dell'ignoto e molto snello, leggero. In buona luce anche questa sottile componente "memorialistica", ricorrente in diversi punti della sua opera, lo slancio ispirato verso i classici, le bellissime raffigurazioni in versi sui quadri, e ancora l'attenzione alla classicità e al mondo del mito, educati a una convivenza con gli scenari più vividi e reali del suo mondo. Un mondo così vario e articolato, da attraversare a pieni polmoni, come un mattino, e ripercorrendo ed entrando nei tratti dell'opera, con più occhi  e con più orecchie simultanei.
Già dalla prima scorsa al libro, nella fase di annusamento, che rivolgo e dedico di solito ai testi appena acquistati, ho colto una particolare strada ferrata, da scandagliare, ripercorrendo di nuovo gli stessi passaggi, stavolta dalla prospettiva del tempo, della forma o della cortina costante della memoria, fino allo scorcio di emozione più caldo, immediato, a volte inatteso, e ritrovandomi sempre sotto gli occhi un qualcosa di sensibilmente vivo e di non ancora letto; a volte quello stesso passaggio, quello che dalla prima volta mi risuonava paradossalmente come già noto e forse risonante in un qualche indefinibile passato. 
Credo che in questo aspetto si svincoli il piccolo sentiero magico che riguarda la scrittura e tutta la letteratura, che la rende assolutamente irresistibile, se accostata e avvicinata in un certo modo, con altre orecchie e sviluppando altre forme di ascolto.
Così come lo stesso Faggi, ne "L'orecchio interiore":

"Chi me li porta i versi? Chi li versa
nel mio orecchio interiore?
Eros li porta, e Polepos, Mnemosine.

La tua voce li sillaba, attraversa
dormiveglia ed ipnosi".

Fino a spianate più intime e particolari, una che ho trovato grandissima, da "Leggendo l'oscuro":

"...Belle, di fronte al dio,
sono tutte le cose. Ma nel mio
desiderio, tu sola".

Intensa, limpida, pulita!

l.s.

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