martedì 26 maggio 2020

Le notti del mio mai


Mi accorgo sempre di più di quanto sia importante non forzare mai la propria dimensione. Quella che in ogni caso ci rappresenta, e che potrebbe discostarsi di gran lunga da quella che avremmo immaginato o che vorremmo si svelasse di fronte agli altri. Non credo che conti affidarsi troppo a lungo a un luogo inesistente, anche se più grande e luminoso, rispetto a quello che occupiamo, riferendomi in particolare al percorso espressivo, quello che di solito (più o meno a ragione) si evidenzia con quello invitante della creatività, intendo dei traguardi, dei riconoscimenti e a volte anche del potere seduttivo di una logica creativa appagata e piuttosto felice del suo dominio (anche se astratto),  come della sua costante egemonia sulla miseria del tacere. Ci sarà sempre qualcuno che avrà fatto qualcosa che avremmo voluto fare noi, e che quindi lo avrà fatto meglio, se non prima, immagino di sì, con maggiore successo, talento e intensità. 
Non credo che esista al mondo qualcuno che non abbia desiderato, in un particolare momento della sua vita, di essere stato lui ad aver scritto quel tale libro, quel paragrafo o frammento, fino al pensiero geniale di quel titolo, se non di ritrovarsi al posto di qualcun altro, anche solo per una dedica, una scritta originale sul muro di una scuola. Perché non averci pensato prima? Perché non io, allora? 
Ma dentro questo piccolo vuoto, che a volte si inoltra nel buio come una faglia sismica, da ogni regione emotiva più o meno prossima all'epicentro, si nasconde anche tutta la tensione del desiderio: quella di esserci a tutti i costi e sopra ogni cosa, che spesso non è legato a quello di più naturale  abbiamo davvero da sentire e da condividere, ma a quello che vorremmo solo occupare, se non recuperare di diritto, per un fine effimero ma violento, una questione più distrettuale che artistica, che mentre ci divora ci racconta, ancora di più di quel poco che abbiamo disegnato – e non solo sognato –  con gli spettri futili delle nostre parole. 
Eppure, mi ripeto spesso, perché forzare oltre un limite tutto questo? Che cosa potrei mai dire e ritrovare di me in un territorio così più ampio e luminoso, con una vista migliore ma in ogni caso non più mio? Come muovermi nelle fauci di una casa enorme ma senza le braccia, che non mi appartiene, dove non potrei mai ricordare i posti, le chiavi, i cassetti, i profumi, i momenti, gli orari dei ritorni e i richiami, per non dormire nemmeno più il mio sonno, non gustare il mio cibo e il mio vino, non immaginare la genesi del mio fuoco e delle mie storie  o paure – non quelle già esistenti, che sarebbe stato bello descrivere o immaginare prima o meglio degli altri, ma quelle perdute e mai più raccontate da nessuno, che in fondo sedimentano il mistero di tutto quello che non ho e che ancora mi rappresenta, come infinito atto unico del mio indefinito, ultimo canto d'amore nelle notti più tenere del mio mai.

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