Il processo di scrittura nella mia vita simula e dissimula il disordine perfetto di un misfatto, un capriccio, o meglio la grande occasione di esprimerlo e disorganizzarlo in un contesto aperto, forse anche creativo, ma che non lo inserisca integrato in una sua morale, lo disperda nel tempo, come il panno di una vela lungo un tratto di costa. Un gioco di forme scomposte, indugianti. Un disordine che irradia una strana luce di sfida alla mia impossibilità di continuare, di impormelo nella possibile sfiducia che il mio percorso potrebbe ispirare (ai giovani sovrani delle convenzioni). Poche le forme intraviste, ma che comunque mi appartengono, pur se velate da una costante fibra di estraneità - il mio strato più intimo sarà forse quello più estraneo ed etoregeneo, irreperibile a me stesso come al mio interlocutore più lontano e murato dalle sue verità; e quando avrò trovato per lui un codice giusto, comunicabile, il veicolo per renderlo commestibile e infallibile, accontentandolo, lo avrò condannato per sempre alla sua infinita impotenza espressiva. Prenderà invece la sua forma da un informe complesso e angusto, disordinato e capriccioso, che a sua volta parla di forme ancora spettrali, larvali, delle quali avverto l'ornato del disegno creaturale ma non ancora i limiti nervosi della pagina, (le sue misure di scuro sul bianco, larva di mosca carnaia).
Una sensazione: da un viso molto assonnato, i capelli che lo avvolgono, che mi apre una porta senza che io abbia bussato (quello che scrivo è qualcosa che ho cercato e che sto cercando o qualcosa che a sua volta mi cerca, mi tocca, mi disturba? Sarò io lo stalker di me stesso o la vittima predestinata di qualcos'altro?): non ha ancora una fisionomia ma ne riconosco il filo spento e perpetuo del sorriso, la chiarezza dello sguardo e il suo colore preciso, anche dagli occhi chiusi, senza una parola. I colori di un viso non hanno mai avuto bisogno di uno schema di linguaggio, ma solo della giusta luce di osservazione, di silenzio. Così la tinta delle pareti ancora al buio, il brillio di una fiammella di cero sotto un tegame, l'odore di un asciugamano bagnato. Non spero di comunicare tutto questo, ma almeno di sfumarlo, di ammantarlo del pastello di una risonanza che ho già avvertito al primo contatto, anche per un solo istante, e che lo riporti a sua volta a un percorso parallelo di ricezione, verso altre forme nebbiose ma intensamente più confidenziali, come se dette e scritte all'orecchio. Che sarà poi quella pressione sottile che attraversa le tempie, un filo di vento alla gola, la stessa del vizio del giocatore perso, la sua patina di leggera follia nello sguardo che non guarda ma attende e conta il momento adatto per puntare. Così la forma da destinare al vapore della pressione di un'idea di scrittura, alla fiala azzurra e dorata del suo siero, che entra nel braccio come una canoa ingoiata da un corso d'acqua.
Come fare e disfare un letto, durante la notte, alle prime luci dell'alba, in una stanza mal riscaldata. Far avvertire un canto di amore in una pietanza cucinata. Da un piatto caldo di cucina, si possono scorgere gli occhi della cuoca nascosta, i suoi piccoli passi gentili, la nocca veloce dei suoi lacci, la sua età, i suoi pensieri, il suo umore, le sue fortune o i suoi drammi; così come da una voce al telefono le gambe, la linea del collo e della fica, la frangetta o le scarpe calzate a metà, la matita nella bocca di chi sta parlando.
Penso a quanto siano libere le proprie sensazioni associate, a quanto precedono la monotonia delle cose troppo colte e anche più note perché contrassegnte da elementi certi distintivi, irrevocabili, come quelli che oscuravano con gli adesivi colorati e rotondi la luce naturale dai vetri della mia stanza. Scrivere di quello che accade alle proprie sensazioni mentre il pensiero le cerca e le disarma, simula e dissimula l'idea del disordine a cui accennavo all'inizio. Sarà ancora una questione sfumata, il taglio dei capelli che nasconde ma insieme mostra la fragilità della nuca, dove da ragazzini piovevano tuonate di scozzetti, per inaugurare la bontà e la freschezza delle forbici, il ronzare della macchinetta, e a testa piegata e chiudendo gli occhi scriverei per una vita intera di una sola nuca, di un collo, di un viso sbiadito, senza ripetermi, come se in quei dettagli o frangenti si nascondesse tutto il mio espresso inesprimibile, il mai e il non ancora detto, il parco estivo acceso e quasi vuoto di anime a metà settembre, che mi spezza il respiro del suo solo silenzio.
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