Dovendo riazzerare, cercando un tipo di percorso più lucido ma anche più ispirato, allora direi che il problema dell'esprimersi e della ricerca di una propria espressione, di una propria forma espressiva, non dovrebbe esistere fin quando non affiori un'impressione adeguata che ne generi il senso. Da questo pensiero immagino così di non esprimermi se non consapevole o anche inconsapevole della forza di un'impressione, del suo disturbo, e non di una trovata, qualcosa di cercato ma di non provato, che giustifichi in qualche modo la fatica, o la stupidità del percorso. Una semplice regola, forse una regola banale, ma che mi imporrebbe di non dedicare alla mia espressione, o alla ricerca di una certa formula espressiva, nessun tipo di logorante processo, che se non supportato da quello che vi è impresso, può attorcigliarsi su se stesso e soffocare. Parlo quindi del seme, del seme che non si decide, non si conforma, né si riabilita a una certa collocazione più o meno precisa, ma esiste come un momento difficile da sentire nel presente, quanto da codificare in un processo di memoria, quindi attraente nel suo mistero di impresso e di imprendibile. L'impressionabilità è già parte dell'atto creativo, ma non ha bisogno di essere necessariamente manipolata per un qualche processo, perché è già completa e naturale così come appare, misteriosa, sfuggente ma nitida e viva nelle dinamiche del ricordo. Non controllata. Così come la mia vita, le mie scelte, le mie caratteristiche di uomo, non potranno essere valorizzate o ridimensionate da quello che cercherei di esprimere, pur facendolo nel modo migliore, il più originale. L'impressione farà parte di un presente imprescindibile quanto vago, che non sempre dovrà confluire in una certa specifica voce o in una certa forma. Vi sono dei momenti intensi e molto belli della mia vita, che non ho mai sognato di raccontare, di scrivere e di descrivere, per la sola ragione che sono loro, da soli, a farlo di me e con me, a descrivermi con il loro apparire in un mio stato di intensità che non si ponga confini e che si basti a se stesso, rendendomi parlante del mio star muto e nell'ascoltare. Lo scrivere come atto di ascolto religioso verso me stesso. Ritornando al nodo, questa parte di me che vuole parlare, dovrà nutrirsi del suo freno, della sua bocca chiusa, e non deve nutrirsi o tentennare nelle apparenze di un espresso che non esiste perché nato da un procedimento troppo logico di impressioni costruite all'occorrenza.
Credo che esistano due categorie fondamentali di problematiche espressive: non trovare le parole per dire quello che si prova e che impressiona, e non trovare impressioni nella propria vita per le proprie parole. Io mi sono trovato a districarmi in entrambe, spesso senza deciderlo, e mi sono accorto che tra le due fatiche, la più spossante e meno remunerata sarà di certo la prima. Nella prima si potrà mancare l'impressione accaduta, che come dicevo sopra non ha a che fare con una struttura creabile ma contiene già nel suo nucleo il suo senso compiuto. Ma si rimarrà comunque, e in qualunque caso, imbevuti di qualcosa, impregnati, anche dello stesso sforzo, prima che arrivi la dimenticanza a sfumarci e nasconderci il provato o quello che si è avvertito di impressionante e quindi di nutriente, come fattore modulante, invasivo, e che voltandoci indietro non ci farà sentire meno vuoti e meno ricettivi verso quello che ci accade e che si sente di un accaduto (o anche di qualcosa di sentito e di non ancora accaduto).
Credo che esistano due categorie fondamentali di problematiche espressive: non trovare le parole per dire quello che si prova e che impressiona, e non trovare impressioni nella propria vita per le proprie parole. Io mi sono trovato a districarmi in entrambe, spesso senza deciderlo, e mi sono accorto che tra le due fatiche, la più spossante e meno remunerata sarà di certo la prima. Nella prima si potrà mancare l'impressione accaduta, che come dicevo sopra non ha a che fare con una struttura creabile ma contiene già nel suo nucleo il suo senso compiuto. Ma si rimarrà comunque, e in qualunque caso, imbevuti di qualcosa, impregnati, anche dello stesso sforzo, prima che arrivi la dimenticanza a sfumarci e nasconderci il provato o quello che si è avvertito di impressionante e quindi di nutriente, come fattore modulante, invasivo, e che voltandoci indietro non ci farà sentire meno vuoti e meno ricettivi verso quello che ci accade e che si sente di un accaduto (o anche di qualcosa di sentito e di non ancora accaduto).
Diverso il contesto strategico dell'altra categoria, dove spesso la trovata che deve sostituire la mancanza di un'impressione, potrebbe centrare anche un certo bersaglio, un effetto poderoso, ma lasciare dentro e intorno qualcosa di troppo asciutto, che evapora e che diminuisce l'attenzione alla sensazione fasulla e mai stata, sacrificandola alla circuizione di un risultato meditato anche se immediato.
Dovendo compiere una scelta consapevole, perferisco intessere un telaio dalle cose che mi hanno formato del loro silenzio, della loro violenza, del loro calore o dolore, cercarle ma non formarle dalle mie tenebre senza nessun proposito espressivo ragionato, quindi esprimerle perché continuazione naturale del processo avviato dell'impressione, e non il contrario. Dovendo riazzerare, come credo sia giusto e liberatorio fare, più di qualche volta. In certi casi lo scrivere è il riazzerarsi di continuo. Questo al momento rimane un proposito accattivante. Un'impressione.
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