Immagino di nascondere quello che rivelo, e quello che mi rivelo rivelandolo alle mie poche parole inventate, spesso residui di molto altro, che ormai è già passato nello stesso momento in cui è manifesto. Scritto di nascosto, e anche di nascosto da me. Maestri indiscussi di questo sono i bambini, che seminano terrore anche per pochi istanti di potere, spesso non sempre involontario e troppo incosciente di sparizione, per provare la resistenza di chi li ama a immaginarsi monchi di loro e della loro realtà, senza l'aria e senza più vita, anche per un solo momento è per sempre; ché quella mancanza è eterna e paralizzante, è feroce, e non ha più un tempo. L'esprimersi, anche se per pochi istanti, con il dominio assoluto della loro assenza.
A circa tre anni di vita, ebbi anche io un'idea simile, ma che durò molto più di pochi istanti. Ricordo ancora il terrore negli occhi di mia madre, quando si accovacciò per abbracciarmi, da illeso e da ritrovato, avendo io deciso di seguire per l'intero litorale un anziano venditore di palloncini, che procedeva senza accorgersi della mia invisibile presenza e assenza instancabile alle sue calcagna. Misi in subbuglio, senza saperlo, tutti gli stabilimenti. Il mio minuscolo nome entrava e usciva dai megafoni, come il sole di quell'ora dai vetri delle case sul mare.
Come qualcuno che agisce di nascosto, mi sento ancora in delitto di apparire per la sola possibilità di celarmi nell'apparizione, presente e assente o presente solo perché assente, e non per essere visto e tradito in una forma troppo nitida, conclamata, accaduta. Nella contraddizione avverto un filo di coerenza.
Ancora un altro aspetto: il silenzio di chi è nascosto parla di quello che penso e che non decido di pensare, (se decidi di scrivere cose che hai deciso di pensare, è perché qualcuno te ne avrà illustrato la convenienza, l'utilità, l'efficacia. Il mio principale disagio, invece, è proprio questo, l'esprimermi per convenire a un solo tipo di risultato convenuto da chi pensa che la sua idea di scrittura e di lettura, mentre legge ciò che scrivo, sia un parametro convenuto e assoluto, già concordato e quindi da me infranto), è ancora quello che rimane dopo una seduta di scrittura, anche la traccia di un solo rigo o del suo soggiorno medianico. Che se tutto andasse sfumato o ancora peggio frainteso, trasformato, disatteso, dimenticato, allora sarà ancora così più delicato il farlo di nascosto, nella sua purezza - qualcosa fatta di nascosto, ha la leggerezza ma anche il peso sul petto del suo spavento colposo, la brezza interna che spezza il fiato e le ossa per chi lo intraveda e non ne è mai pronto.
Parlare poco per dirsi molto, o farlo tacendo. Tacere scrivendo è la magia che riempie di senso il tentativo e lo ricolma del suo primo gesto da un fondale paludoso, gli occhi di chi comincia ad amarsi mentre si guarda, a volte senza essersi nemmeno mai parlato; o dallo sguardo di mia madre giovanissima, sulla spiaggia, che mi guardava con i miei stessi occhi, le sue ginocchia mi arrivavano al petto quanto il suo tremore infantile. Di quello che scrivo così lo nascondo a se stesso, lo scrivo per completarlo del suo celato inganno involontario, della sua grande occasione di amore o di morte andata perduta in partenza, senza aspettarmi nulla che non sia già stato e già nascosto. Rivelato alla sua stessa ombra, come un bacio muto nei capelli di chi muore o di chi sta già dormendo.
0 commenti:
Posta un commento