I due estremi di intervento in uno scritto, si dibattono sempre tra sentire e solo dire: pulsione interna e automatismo indotto.
Potrei dire in automatico, supportato da un flusso cosciente che mi costruisce da solo le parti di una struttura, parti evidentemente non programmate o rielaborate prima di quegli istanti in sequenza in cui vedono la loro prima luce sotto le mie dita, quasi a mia insaputa.
Potrei dire anche per flusso di sensazione e relativa pulsione espressiva e di abbandono per un'idea che ho sentito nell'aria, poco prima, durante il giorno e quindi anche durante il getto di stesura, come il fischio di una melodia che non è ancora di nessuna canzone. Idea che in quel momento prende le mie emozioni, i miei sentimenti, le mie sensazioni. Quell'idea non è prettamente letteraria e nemmeno ha ancora la coerenza per essere considerata un tassello che giustifichi un impianto. In quel momento ha la forma di un grido. La sola necessità e urgenza che quell'idea, quell'emozione e quella sensazione, non vadano perdute, sarà quella di gridarle o anche sputarle e tossirle, con gli strumenti muti disponibili al momento e prima che sia troppo tardi.
Una delle paure più grandi è quella di rimanere orfani di quella improvvisa maternità dell'idea. Privi del suo latte se solo non la si trasformi in un linguaggio al più presto; come se avesse una scadenza di utilizzo, una sua impermanenza dentro di me che potrebbe farla sfumare se non la blindo per tempo dentro un contenitore.
In questi due casi la mia attività di trasposizione nei segni, potrebbe procedere allo stesso modo e portare anche a risultati qualitativi simili. La presenza di un'idea forte e ispirata, non escluderà un processo di automaticità e di costruzione non programmata, pur nell'ambito di quella sua linea di sviluppo per così dire illuminante o illuminata da una guida interna. Così come in un processo automatico, che in apparenza non pare supportato dall'urgenza di nessuna idea o particolare emozione, non è escluso che possa rivelarsene una durante il cammino, un'idea latente che non pensavo e non immaginavo di incontrare e che in diversi casi pare essere figlia dell'automaticità e del meccanismo delle sequenze di scrittura, più che da una mia più o meno definita dimensione emozionale, quando invece non è sempre così. Credo mai.
Le emozioni di uno scrittore non sono sempre le stesse. Uno scrittore emozionato mentre scrive, può restituire al lettore blocchi di ghiaccio secco fumante, giusto l'opposto di quello che avrà avvertito nella gioia o nel trasporto della sua emozione idea o idea emozionante (i concetti così in voga di emozionante, scrittore fisico o sensibile, sono inafferrabili e ricchi di sfumature e di tinte variegate difficili da fissare e da controllare per quanti risconti avrà quel dato scritto in chi alla fine lo leggerà).
Mi accorgo che i due estremi, i due capi di questo procedimento, spesso sono gli stessi, intercambiabili e mutanti. Il lettore che riceverà un impulso, avrà sempre lo choc originario della rottura del silenzio, a cui accennavo in qualche altro post, dove l'energia psichica e i meccanismi di trasferimento della stessa, diventeranno altro. Prenderanno forme legate ad altre urgenze e ad altri abbandoni ricettivi di chi si mette all'ascolto. Un segnale radio, più o meno disturbato, la cui frequenza sarà legata a quanto più armonico e complesso sarà il mondo emozionale di chi scrive e alla sua capacità di canalizzarlo in un dato contesto costrittivo, come è quello della parola scritta, ma senza schiacciarlo e rendendolo il più possibile vicino e risonante al mondo ignoto ed emozionale di chi legge.
Sarà così?
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