sabato 26 gennaio 2013

Fascino e fascinazione

Non amo la parola fascino. L'uso che se ne fa è gelido. Sono raggelato dalle circostanze. Molto più interessante il termine fascinazione. L'ultima parte dell'ultimo termine interrompe il fastidioso fruscio ottenebrante e troppo ottocentesco, che mi riporta a un'idea dozzinale di bellezza fascinosa o affascinante o forse in diversi casi corretta in questo modo: questa persona non è bella ma ha fascino, o il contrario: è bellissima ma non ha fascino. In queste paludi ed abissi di tristezza, avverto che si parli di cose che non si avvertono, ma che si relegano e si raggelano nella percezione di una monarchia assoluta di costume, del dire dopo altro detto e senza aver provato il senso personale e intimo del fascino, il suo panico, nel mio caso, o la sua maledizione. 
Dire per il dire o per far dire.  Senza provare alcuno stupore ma ragionando sullo stupire. Non dire dopo aver patito o comunque sentito quello che si è visto. Dire con gli occhiali al loro posto e ben pettinati quello che è bello e che è forte e affascinante da dire e che piace e che funziona, e accantonare quello che è brutto, che di solito è debole, noioso, ordinario e che non funziona.
L'idea del fascino è guasta in partenza, per quello che vedono le mie orecchie e che sentono i miei occhi, come un'ostrica sputata in un piatto da un malato di tifo e conservata in un paniere in pieno agosto. Avverto intorno a me e alle mie piccole esperienze, nominare cose che non si sentono e che spesso non si sanno. Affascinarsi da un'idea assoluta di fascino che avverto anni luce lontana da me quando viene celebrata senza partecipazione o stupore alcuno verso quello di cui si parla. Quindi il mio relativo disagio di parlare di fascino quando è associato al concetto effimero quanto guasto di bellezza come potere, egemonia, affabulazione, superficie, gelo: in effetti si sta riducendo a questo. Una condizione numerica e gelida di strutture logiche, ingurgitate e definite.
Eppure la fascinazione, preferisco questo termine, almeno per chi scrive e quindi per chi vede e sente quello che scrive, è fondamentale, a patto che non sia relegata a uno standard predefinito di eccellenza o di convenienza di adesione a questa eccellenza codificata, ma da una condizione di disagio e di mistero di fronte a un'esperienza personale, non confrontata, commentata o celebrata nei fumi del razionale.
Io parlo da pazzo furioso, sono d'accordo, ma cerco di portare avanti il mio ragionamento, nei limiti del mio senso emozionante o tenuta emozionata delle parti in gioco, che sono quelle che mi tengono in vita e che mi distinguono dal mio lume da tavolo o dalla sedia sulla quale sto seduto.
Fascino: la cosa più paradossale è che questo vocabolo non nasce da un movente attivo, ma è quasi un torto subìto. Nei riferimenti che ho avuto spesso modo di approfondire la parola fascino ha a  che fare con le streghe. Se non ricordo male un vocabolario portava tra le prime definizioni del fascino la malia e la stregoneria. Non dimentichiamo l'etimologia latina, il fascĭnum che è propriamente l'incantesimo, se non il maleficio. Si ipotizza anche una sovrapposizione con l'etimo grego báskanos, che vuol dire incantatore, per cui rafforzerebbe ancora di più la mia tesi secondo la quale se non ti spezza il fiato una cosa non può davvero affascinarti e non la puoi dire affascinante se non patita da un incantamento. Ma oggi il fiato non va spezzato, potrebbe compromettere la linea, creare delle alterazioni ai tessuti, alla muscolatura. Intanto il fascino nasce e cresce come base terminologica in una dimensione di assenza magica dalle pulsioni comuni di orientamento e gestione delle cose che viviamo. E quella privazione di volontà raziocinante, quella che le migliori streghe esercitano con i loro infusi e le tinte coralline delle loro ampolle fumanti, dove sarà mai finita? 
Un'altra definizione, non lontanissima dalla prima ma comunque differenziata, è il potere seduttivo di qualcuno o  di qualcosa, quella che viene più comunemente adottata e recitata quando si gioca a stare male per qualcosa che nemmeno ti ha sfiorato, ma che in certi contesti conviene che ti sfiori. Potere seduttivo che nella maggior parte dei casi deve limitarsi all'orchestrazione di un amplesso decente, col televisore acceso o qualcosa che brilla sul fuoco, per poi essere inserito nel menu del giorno da raccontare agli altri mangiatori di fascino o di cose pensate fascinose o chiavate da fascinose. Consumate da fredde.
Perché fascinazione e non fascino? Perché la fascinazione è l'atto di affascinare, è quell'insieme misterioso di circostanze e di varianti inscrutabili a queste circostanze, che consentono a una situazione di risultare in qualche modo stregante, o malefica o seduttiva, ma comunque tangibile se avvertita nella sua interezza e non soltanto annusata o sfiorata e poi giudicata e sentenziata. Con la perdita crescente del senso di perdita e di stupore per il semplice, per l'infinito nascosto nelle piccole cose, perdita che avverto molto forte intorno a me, la mia grande fatica quando scrivo è quella di far provare cose che sento prima di scrivere, che forse sanguino ma che non dico. Il giorno in cui mi accorgessi di aver scritto parole non avvertite e patite, andrei a fittarmi un campo da tennis e passerei tutto il tempo dedicato alla scrittura al gioco del tennis, in attesa di non avere cose da dire ma da sentire nel mio fondo. Come sentirsi la palla di un rovescio dalla racchetta al braccio e fino alla clavicola. Cose o situazioni da non essere sentite per poi dirle, ma da essere dette solo perché sentite. La fatica è data dalla mia visione aperta e di assoluta rottura al cattivo uso del termine fascino che non è relegato a un effetto estetico, ma a un disagio o barcollamento o sensazione dopo una frizione. Il fascino e la seduzione sono prima di tutto alterazioni e non raffigurazioni di uno standard. Anche quando si parla di fascino di qualcosa di brutto, la maggior parte delle persone parlano nella logica estetica di uno standard, di qualcosa di misurato, di relegato in un confine preciso ma senza vita. Senza possibilità di impolverarsi. Gelido più del gelo. Così gelido da non avere nemmeno più gelo.
Per me è affascinante, e mi sento affascinante, quando prima di andare a letto faccio pipì con gli occhi chiusi, che nemmeno mi reggo in piedi. Per me è affascinante una ragazza con una sola scarpa slacciata. Una definita bruttina che arrossisce per un complimento inatteso dietro gli occhiali e che si commuove.  Qualcuno che ti raggiunge nella pioggia senza l'ombrello per dirti grazie o ti voglio un bene dell'anima. Una telefonata nella notte. Sono situazioni di fascinazione mai definite e modulanti verso i toni lontani di una mia personale enarmonia che mi fa più vivo. Nessuna donna molto attraente, potrebbe superare alcune situazioni di tenerezza indimenticabili offerte da persone all'apparenza non affascinanti, che mi sono rimaste nel cuore e anche nello stomaco, per quei pochi secondi nelle quali le ho intercettate. Alle scuole elementari avevo in classe una ragazza molto bella e definita affascinante, la quale poi è diventata una modella di Amica, la rivista. Mi era anche molto simpatica, al doposcuola voleva sempre stare vicino a me. Ecco, se adesso dovessi scrivere qualcosa di lei, dovrei solo dirla, non ricordo troppo da poter sentire e poi dire. Allora forse non era affascinante o non sarà stato affascinante o ammaliante il ricordo della compagna sulla rivista di Amica? O sono io che sono un perfetto idiota? Come funzionano allora queste regole ferree di canoni a cui adeguarsi dentro di me? E la mia scrittura, di cosa parlerà? Di quale bellezza?
Per finire: il tutto deve partire dalla perdita del controllo. Dallo stupore successivo alla fascinazione, e non dal fascino idealizzato e non provato, ma esercitato come unico movente di stupore.
La differenza è tutta lì.
Credo...

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