Immagino le mie parole e tutto l'assieme del mio linguaggio, della mia idea di linguaggio, scorrere in un ascensore, salire e risalire, in una vecchia cabina in legno, sempre più su. E io sulle scale, a seguire l'ascensore con tutto l'assieme del mio linguaggio, col fiatone.
Il palazzo è antico e ha molti piani. Ogni tanto tremano le luci nella vecchia cabina vacillante, tutta in legno, dove il mio linguaggio sale: la luce tremola, a volte manca, poi ritorna, ma non sulle scale. Il mio percorso è limpido e luminoso, è dentro l'ascensore che lampeggia un guasto, che rende tutto molto confuso e molto incerto.
Quando l'illuminazione nella cabina in legno dell'ascensore si fa appena più stabile, solo allora, dopo il contrasto con quegli istanti di buio, riesco a cogliere gli aspetti delle figure che vi sono dentro, di quel certo assieme che sale dentro il vecchio ascensore. Sono figure diverse e mutanti. Alcune donne, vestite in nero, dai lunghi cappelli rossi, inclinati, che coprono i visi o li rendono fitti di ombre negli angoli bassi, donne dalle gambe attraenti e velate di scuro; ma anche uomini con cappelli d'epoca, o ragazzi che fumano di nascosto, un filo di sangue dal naso dopo una rissa. Una coppia di suore francesi, le loro cornette che fanno ombra, lo sguardo scuro. Una camiciaia, una vecchia cieca, una cassiera discinta, un giocatore di hockey, una bambola che cammina da sola sbattendo gli occhi. Le figure si alternano e si trasformano e si fondono l'una nell'altra e intanto si sta salendo sempre più su. I miei occhi non vedono i gradini ma le figure nebbiose nell'ascensore.
Prima o poi si fermerà, mi dico mentre salgo: anche se all'ultimo piano, avrò modo di fermare qualcuno, di poter prenderlo o parlarci o capire. Sono quasi alla fine, l'ascensore rallenta, la lampadina trema, all'ultimo piano si ferma e si fa buio: l'abitacolo ma anche le scale. Sento un vociare, un odore di fumo, di profumi femminili, qualche sbuffo, poi il silenzio. Sono fermo allo stesso piano, ma non sento più niente. Tutto finito.
Tornata la luce l'abitacolo è vuoto, il piano disabitato così come quel palazzo. Così non mi rimane che entrare in quell'ascensore vuoto, ma ancora pieno dei profumi femminili delle donne eleganti coi cappelli, del tabacco degli uomini e riscendere da solo, con la lampadina che trema e che sbatte e una serie di figure che si formano come ombre dalle scale, che scendono e mi inseguono, forse le stesse che erano in salita poco prima, mormorando qualcosa, a volte tossendo, qualcuna in silenzio. Vorrei fermare l'ascensore e farle entrare, ma l'ascensore non risponde ai comandi. Ascolto i passi delle figure sulle scale come se venissero dal mio cuore. Una volta a terra è ancora tutto vuoto e silenzioso. Sono ancora fermo e da solo. Nel semibuio di un palazzo disabitato, appena un filo di carillon.
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