I miei incontri e le mie scoperte più belle, navigano sempre intorno agli stessi elementi fondamentali, come se quello che mi arriva, anche da sponde e da territori lontani, abbia sempre in sé un certo nesso o nucleo di poetica. Così come l'universo ermetico di Piero Bigongiari, poeta meraviglioso, dal verso misterioso e lagunare, quanto espansivo di oppportunità e di sensi e non sensi interconnessi, una zona di senso e significato compiuto, definito o raggiunto, che apre intanto la porta a un nuovo percorso asemantico, con nuovi sentieri più o meno tortuosi, nuove luci e altre probabilità, così come sottolinea e conferma Giancarlo Quiriconi: "La creazione artistica è dunque una processualità continua che inutilmente si vorrebbe bloccare a una significazione definitiva. Ogni senso raggiunto infatti individua un risvolto di non senso e dunque una soglia ulteriore di possibile significazione".
Due poesie di Piero Bigongiari
Vetrata (da La figlia di Babilonia -1942)
O memoria, la terra è il tuo ritorno
negli occhi, le magnolie
in un torno di gridi dai cortili
traboccano, sui lividi ginocchi
spunta l'età più grande come un'alba.
Una febbre rimuove dagli stipiti
la madre dolcemente: là trasporta
simile a luce le vele dal porto:
afosa muore sulle braccia a chi
non scorda. Mentre un lampo rosa inonda
la finestra, l'attesa: una tempesta
di caldo, un bacio che fa vana ressa.
E i cani spenti di una festa delirano
di viola se grappoli di nulla
pendono già a un oriente.
La trovo straordinaria. Carica di un'aria moderna, di luci e di gioventù. Il suono che prende il gusto. Dove mi andrebbe di affondare la lingua e trattenere i sapori: dentro un lampo rosa inonda la finestra, si apre un baratro di possibili celebrazioni dell'attimo in un eterno invisibile e rilevato, spaventoso. Così come la densità di un bacio che fa vana ressa, un momento moltiplicato in istanti di fotogrammi, in dimensioni altre. I cani spenti di una festa, dove sembrano abbandonarsi le ombre e il cupo, dopo l'istante luminoso, la folgorazione che brucia e che bagna l'occhio come una pioggia autunnale.
Un altro esempio, altrettanto intenso:
Non so (da Rogo -1952)
Nell'umido brillare dei tetti,
nel calare del sole tra scogliere
di strade, non so cos' altro aspetti,
s'altro dichiari con parole rade
ai passanti, ai vetri ciechi del tram,
e a un tratto molto so della speranza,
ma non so neppure cosa si perde
nell'ansimo dell'aria, quasi un battito
accelerato di motore,
quasi tacchi più fitti, una catena
che si tende, gli occhi un poco più desti.
Ma lo sguardo è dentro le cose
a cercarvi la buccia tra la polpa,
e non v'è colpa sufficiente per la nostra gioia,
nemmeno la speranza e la solitudine:
tu sai che non so, tu sai che puoi chiedere.
Una pagina dolce di cinema e di suoni che sanno di cinema. Rinforzando gli effetti con allitterazioni tenaci: sole tra le scogliere di strade, non so / cos' altro aspetti, si tesse un filo infinito, ricamo di immagini e risonanze, senza mai perdere il mordente, il selciato asciutto e luminoso, ma che non rifiuta mai la ginnastica dell'ombra: " ai passanti, ai vetri ciechi del tram", ecco il moto silenzioso delle cose e della vita intuita attraverso le cose "nell'ansimo dell'aria", ancora colpi di coltello gentili, fino alla rivelazione de i tacchi più fitti, una catena / che si tende, ancora una bellissima e raffinata allitterazione, quasi a rafforzare l'idea di una certa poetica ermetica, il suo processo divorante di cui parlavamo prima, di approdi e di continue nuove partenze, da un quasi senso a un nuovo non senso: tu sai che non so, tu sai che puoi chiedere.
Incantevole e credo imperdibile.
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