domenica 30 settembre 2012

Schizzo alla villa, in conclusione di mese (bozza):


Se ancora osservo
l'antichità della vita
dalle luci della villa
appena riaccesa,
sempre la sua bruma
e minacciosa perdura,
dopo una pioggia semplice,
l'ardore da un posto lontano;
e lontano sfuma la tua mano
nel tratto doloroso e piano
del nostro piccolo balcone,
disteso alle rapide faide
dei lunghi baci molesti,
se ancora stringo
al tuo cuore la bufera
di quel franare di tango
dalle finestre riaperte,
le chitarre dell'upupa
sulle mille attese del mese.

Claudio Damiani: Poesie - Fazi: Sognando Li Po

sabato 29 settembre 2012

Questo romanzo è un temporale: "Il Maestro e Margherita" di Michail Bulgakov.


Tre passaggi preziosi e indimenticabili da Michail Bulgakov, estratti dal Capitolo "L'apparizione dell'eroe", del romanzo "Il maestro e Margherita". (La versione che utilizzo è quella integrale di Giulio Einaudi-1967). 
Delle sferzate profonde che mi hanno fulminato in pieno. Non tanto per la loro costruzione, forma, qualità stilistica, ma per tutta la forza e sismicità che trattengono e che insieme espandono. Sensazioni, non più parole, che mi hanno colmato di gioia e di spavento, e che ho sentito di condividere, perché brillanti di una vita e di una luce propria, quasi autonoma dalla poetica del contesto da cui li ho scorporati:

"L'amore ci si parò dinnanzi come un assassino sbuca fuori in un vicolo, quasi uscisse dalla terra, e ci colpì subito entrambi. Così colpisce il fulmine, così colpisce un coltello a serramanico".

"Appena arrivava, lei si infilava un grembiule, e nello stesso ingresso, dove si trovava il lavandino, di cui il povero malato era tanto fiero, accendeva sul tavolo di legno il fornellino a petrolio, preparava la colazione e la serviva nella prima stanza sul tavolo ovale. Quando scoppiavano i temporali di maggio e davanti alle finestre poco luminose l'acqua scorreva rumorosa nel portone minacciando di inondare l'ultimo rifugio, gli innamorati accendevano la stufa e vi facevano cuocere le patate nella cenere. Dalle patate si alzavano nubi di vapore, la buccia nera sporcava loro le dita. Nello scantinato si udivano risate e nel giardino gli alberi, dopo la pioggia, si scrollavano di dosso i ramoscelli spezzati e grappoli di fiori bianchi".

"L'orologio da tasca segnava le due di notte. Mi ero coricato con un principio di malattia, mi svegliai malato del tutto. Mi parve a un tratto che l'oscurità autunnale avrebbe sfondato i vetri, si sarebbe riversata nella stanza e io vi sarei annegato come nell'inchiostro".

Questo romanzo è un temporale. Difficilmente o quasi mai consiglio libri, non mi piace sostituirmi alle scelte degli altri, così come preferisco fare da solo le mie scoperte. Ma questo romanzo è davvero un temporale.

venerdì 28 settembre 2012

"Monouso, per favore" e dialoghi in corto


Come sempre un ringraziamento a Manuela Giacchetta, che mi ha dato ancora una volta fiducia.
Il dialogo in corto e in questione: "Monouso, per favore".

Concorso letterario per poesie Aurelio Goretti (opere inedite)



1) Tema proposto: tema libero per tutti i partecipanti. 


2) Ogni partecipante può presentare un massimo di due componimenti. Le poesie devono essere scritte in lingua italiana. Le poesie devono essere originali, non devono essere state già pubblicate in libro edito o premiate ad altri concorsi. Sono ammesse poesie comparse su antologie di altri concorsi, riviste o internet.

3) Le poesie dovranno pervenire entro il 31 Ottobre 2012. Per gli elaborati spediti a mezzo posta farà fede il timbro postale.

4) Il plico con le poesie (che non dovrà assolutamente riportare il nome dell’autore) dovrà contenere 5 copie anonime di ogni poesia, dattiloscritte o fotocopiate, tutte leggibili. Alla busta contenente le poesie dovrà essere allegata una busta chiusa anonima contenente i dati del partecipante (nome e cognome, anno di nascita, indirizzo, numero di telefono, indirizzo e-mail). I soli finalisti che risulteranno vincitori saranno avvisati in tempo utile per presenziare alla cerimonia di premiazione.

5) Le poesie dovranno essere consegnate o indirizzate in un unico plico presso la:
Biblioteca Civica di Lierna
Via E. V. Parodi
23827 Lierna (Lecco)

6) La partecipazione al concorso è gratuita.

7) Le opere non saranno restituite e la biblioteca in qualità di organizzatrice non è responsabile di eventuali smarrimenti di testi. Tutti i partecipanti al concorso sono invitati ad assistere alla cerimonia di premiazione dei vincitori che avverrà il giorno Sabato 24 Novembre 2012 alle ore 20:30 presso il salone dell’Oratorio Parrocchiale di Lierna.

8) I premi consisteranno in: un assegno bancario del valore rispettivamente di euro 300 per il 1° classificato, di euro 150 per il 2° classificato, di euro 50 per il 3° classificato più una pergamena.

9) La Biblioteca si riserva il diritto di cambiare, non assegnare o modificare i premi a suo insindacabile giudizio.

10) Tutti i vincitori, presenti alla premiazione potranno leggere la loro poesia premiata.

11) Ai sensi della Legge 196/03 i concorrenti (e i genitori per i minori) autorizzano l’organizzazione al trattamento dei loro dati anagrafici e biografici nell’ambito del concorso.

12) I partecipanti al concorso autorizzano l’organizzazione a raccogliere in un eventuale volume le loro opere, pur conservando i rispettivi autori la proprietà letteraria delle stesse.

13) La partecipazione al concorso costituisce implicita accettazione di tutte le norme del regolamento.

giovedì 27 settembre 2012

"Starter kit per blogger" di Marco Freccero


Ho letto con grande piacere e interesse l'ottimo lavoro di Marco Freccero "Starter kit per blogger"(originale la presenza della preposizione italiana per, anziché il tipico for, piccolo particolare raffinato di contrasto nel titolo, che mi ha colpito così come il retweet centrale in punta obliqua di becco).
Bella la copertina. Le tinte sobrie ma non smorte, accattivante, anche un po' cool. (40 K, la casa editrice).
Dunque: questo lavoro lo trovo ben scritto, fluido, equilibrato, ricco di spunti molto utili, sia per chi si accosta solo adesso alla progettazione di un proprio blog, che per chi sia già in attività ma vuole vederci chiaro e approfondirne il senso. Ma apre anche un discorso stimolante sulla rete e sulle sue diverse possibilità e prospettive di fruizione; per una visione più ampia degli strumenti disponibili, delle risorse e di una maggiore consapevolezza del loro utilizzo. 
La scrittura è invitante, una comunicazione efficace e diretta, portata avanti con competenza e buon ritmo; mai troppo tecnicistica, pur nell'invidiabile competenza di Marco nel settore, ma allo stesso tempo immediata ed esaustiva per i diversi spunti che condivide (L'apertura brillante con l'idea o concetto interpretabile di commodity, sui diversi tipi di beni, virtuali o meno; e poi citando Christopher Carfi, Tim Berners-Lee, Donald A. Norman, Jakob Nielsen, etc) e per i luoghi comuni che sfata:  accostandosi con uno spirito molto colloquiale e appassionato, senza imporre verità o vangeli, ma portando il lettore a riflettere per trovare una sua strada personale ed espressiva, nel fitto labirinto della rete, cercando di prediligerla sempre come un ottimo mezzo e mai solo come un fine. 
Una prospettiva interessante di sviluppo che  mette al centro l'individuo e la sua espressività nella  capacità di relazione e di condivisione di un proprio mondo:  "Nessuno di noi è una tabula rasa, e ci sono le risorse per esserlo ancora di meno, gratuite. La presenza in Rete di ciascuno di noi ha senso se quel tempo speso a navigare viene usato per migliorare la nostra umanità. Per conversare e condividere".
Più che focalizzare lo srumento, Marco Freccero fa riflettere a fondo lo strumentista, lo responsabilizza su quello che ha davanti, ma in primo luogo su come sia importante gestire quello che si abbia già dentro, da dire o da provare a dire e da tirar fuori, puntando a una consapevolezza sottile e raffinata di un mezzo e di un'utenza appropriata del mezzo, ("...ci sono in giro un mucchio di cattivi esempi di conversazione"),  nelle sue infinite possibilità di espansione, di comunicazione, di buona sensibilità alla relazione e all'ascolto. La sua visione del Web è molto originale e moderna, e credo che possa rappresentare un reale arricchimento per chiunque voglia confrontarsi con una voce nuova, solida e ben impostata. Per chi voglia provare un nuovo tipo di approccio, più ampio e creativo, lungo le sue rotte di medio o di lungo corso.
Ho letto questo lavoro in formato ePub, su di un Cybook opus, con grandissima comodità. Mi auguro solo che il testo possa essere tradotto nelle lingue principali, perché lo merita. 
Credo di aver espresso l'essenziale. Il resto è tutto da leggere, con attenzione e creatività.



mercoledì 26 settembre 2012

La libertà dell'insicurezza

Temo che oggi sia in agguato una codifica ricorrente sul buon creare, sul creare sicuro, senza esitazioni, con i minimi consumi, trascinata poi, da quel seme, a tutti gli aspetti successivi della tessitura, che in molti casi risulterà disarmonica con chi la vuole fedele a quel certo standard di efficienza, fin dai suoi primi palpiti, o stadio di invisibilità. Mi sono accorto che in diversi contesti, non si cerca la particolarità di una voce, ma la sua telepatica sensibilità di uniformarsi a mondi espressivi preesistenti, performanti e precostituiti per grado di efficienza e omologazione a un certo standard di sicurezza, anche se poi questi mondi non appartengono allo scrittore, (come mai potrebbero?), e che lo stesso scrittore dovrebbe quindi intuire fin dall'inzio di una sua idea embrionale, a discapito di tutti quelli che faranno parte di un suo sfondo e di una sua urgenza di parlare o di rompere con gioia e con dolore il ghiaccio del suo mutismo.
Avverto nell'aria quella tendenza alla ricerca della rassicurazione a tutti i costi, del ben fatto, prima di andare avanti col polso fermato da un altra mano; questo fin dai primi passi, quando credo, invece, che nel momento di un incontro con qualcosa di intenso da dire, si sarà sempre e fortunatamente soli al mondo e insicuri. Brancolanti nelle proprie ombre, (ma non in quelle di qualcun altro).
Dove si ripone il pericolo della sicurezza acquisita e custodita all'origine del primo gesto creativo o tentativo espressivo? Nel fatto che nel momento che ho un foglio tra le mani, avrei così tanti ospiti e comizi di piazza ancora presenti e formicolanti nella testa, da perdere di vista la mia esistenza di quell'attimo e di quello che io ritengo esprimibile della mia vita in quel frangente, che non dovrebbe corrispondere a qualcosa di giusto o di corretto, ma di aderente alla priorità psichica e/o spirituale di quell'istante selvatico che non ha ancora logica, materia o regole predeterminate, ma che sarà la radice di tutto quello che avverrà poi.
Dice Mario Vargas Llosa: "...nessuno può insegnare a un altro a creare, ma tutt'al più può insegnargli a leggere e a scrivere. Il resto, ognuno lo insegna a se stesso inciampando, cadendo e rialzandosi, incessantemente".
Quando penso di dare un senso a quello che tento di esprimere e di imbrigliarlo, ancora prima che il cavallo parta, mi sento come un fantino condannato a frustarlo nel sonno, o da fermo, mentre si nutre. Avverto quindi il pericolo di una tendenza automatica alla dottrina dell'efficienza, che può avvenire anche alle proprie spalle. Quando non ho nessuna garanzia che domani scriverò una sola riga, buona o cattiva che sia. Non ho nessuna garanzia che non diventi di colpo muto di parole, di sensazioni e di idee da comunicare, anche una volta salvato questo post.
Ma questa mia insicurezza sarà anche parte viva della mia voce, della mia fucina. In questo confine delicato mi ritocca mettermi in gioco e cercare una strada nell'intercapedine tra lo stadio del mutismo e quello del primo attacco di suono, uno sblocco, cercando poi di articolarlo e di trasferirlo in più parole, nell'atto doloroso-gioioso del parlare (vedi il bellissimo intervento di Alexander Cistelecan su "La poesia, qualcosa che non si può leggere"). 
Quando poi avrò scritto, descritto, riscritto e parlato, combattuto il primo stadio del mio mutismo, allora tutto potrà accadere. Ci sarà il tempo perché qualcosa accada, si modifichi, si migliori, si distrugga, si approfondisca, in gran parte dei casi ci deluda, magnifco anche così, non è successo niente, almeno ci ho provato con le mie forze. Ma il momento o "tramite" tra l'ultima striscia di silenzio e il primo flebile sussurro, andrebbe protetto da ogni dottrina acquisita o attitudine e abitudine creativa di qualcun altro, anche del più illustre, secondo me:
c'est tout.

martedì 25 settembre 2012

Care finestre, di Michelangelo Salerno


Care finestre
e davanzali bianchi
solcati da vene celesti,
vetri sfiorati
da un bacio dolceamaro di geranio,
anime aperte
al vento di mare
della mia città,
da voi
ho visto visi chiari di donne
e capelli legati con un nastro,
una mano ancora di bambina
cogliere una foglia di menta.
Sono stato a guardare
gli uccelli venirvi incontro,
fermarsi per un attimo
e riprendere il volo.

Michelangelo Salerno (1938 - 2000) poesia estratta da Hansel e Gretel  
Edizioni Città di vita - Firenze. Raccolta vincitrice del Premio Nóferi 1969

lunedì 24 settembre 2012

Un grazie sentito a Geoffrey Grigson

Ringrazio di cuore Geoffrey Grigson e la delicata attenzione per il mio post di stamattina "Consonanze e atmosfere", su Burgess, Llosa e Faulkner, che ha appena inserito (Posted in appreciation) nel suo bellissimo "In search of Anthony Burgess".
Per me è stato davvero un onore e una bellissima sorpresa: 

Settimana 34: link alla pagina di Narrant



Qui il collegamento con la pagina di Narrant, dove gli utenti votano e commentano i racconti:

Consonanze e atmosfere: Vargas Llosa, Burgess, Faulkner?



Leggendo e inoltrandomi nella lettura avvincente de "La casa verde", di Mario Vargas Llosa, ho rivissuto le atmosfere e la freschezza de "La trilogia malese ", di Burgess, (i tre romanzi nati e sviluppati come testimonianza dei quattro anni di permanenza di Anthony Burgess in Malaysia quando, da insegnante incaricato, si trovò ad assistere al pieno processo di mutamento e di trasformazioni storiche, politiche e sociali del paese), e per la fluidità e la modernità dei dialoghi e della struttura stilisitica, anche qualcosa de "La paga del soldato", di Faulkner. Sensazioni forse rievocate dalle luci della storia e delle vecchie altre storie delle quali ogni storia al mondo è impregnata, di scritte, di mai scritte, di non ancora scritte ma che sono già nell'aria, e che sono ritornate a rivivere grazie a quell'ultima, per uno strano meccanismo di scintillio e di consonanza fra zone linguistiche e geografiche anche lontane (L'Asia di Burgess e l'America meridionale di Vargas Llosa), ma che sperimentate dentro qualcuno ritrovano tra di loro un certo nesso, una rispondenza, anche solo per qualche piccolo punto, un solo dettaglio un profumo o una freschezza comune che poi le confonde.


Questo aspetto mi fa riflettere, Nella scrittura appaiono e si inrociano mondi molto diversi, alcuni più noti e identificabili, perché già sfiorati o conosciuti con l'esperienza viva di un approccio, altri invece più complessi, perché intrecciati a situazioni più interne e oscurate da altro, se non dalle loro stesse penombre. O forse perché rimasti ancora incastrati, in attesa che qualcosa o qualcuno li ritirasse fuori. La forza evocativa ed espressiva di un romanzo, (in questo caso di questo meraviglioso e originale affresco, originato da esperienze personali di viaggio di Llosa e della sua permanenza nella città di Piura che si trova in Perù, che è diventato "La casa verde"), è quella di estendersi dai confini della sua struttura, dal suo contenuto in grossa parte autobiografico o dai suoi aspetti formali, verso tutto quello che vi è di più impalpabile e di ancora invisibile dalla sola cronaca di quel mondo, quindi non battuto e rivelato del tutto, ma di cui si saranno un tempo nutrite, in qualche modo, le parti vive e sensibili dell' autore. Un tipo di matrice oscura ma viva, dove spesso più affluenti sensibili vanno ad incrociarsi. I libri, e le atmosfere descrittive che evocano immaginazione di luoghi lontani, nascono e si incrociano, come nel caso di Llosa e di Burgess nelle loro opere, da momenti di vita reale misti ad altrettante sfumature di possibile romanzato e finzione, integrate spesso in una soglia ricettiva delicatissima che le fonde e le espande in un certo unicum superiore. Ma anche di una possibile porzione di inverosimiglianza e di fantastico, che ritorna in una certa forma e riconduce verso altri mondi e canali. La ricchezza di un testo sarà anche quella di contenere lo spasmo della ricerca di chi scrive, ormai avviata, che è stata compiuta in corso d'opera ma che è ancora in atto, mai interrotta neanche a libro finito, perché passata come una staffetta nell'alveo immaginario del lettore più lontano, con tutte le sue personali esperienze pregresse o ricerche personali ed emozionanti ancora in atto, mai abbandonate perché incastrate in un suo deposito ancora vivo e fresco di memorie.
In effetti i libri cominciano a smuoversi e ad essere riscritti dagli occhi di chi li incontra. Ne "La trilogia Malese", di Burgess, arrivavano gli odori dei luoghi, anche quello del succo ghiacciato di pomodoro e il ronzio dei ventilatori e della pioggia battente, con la grande potenza delle luci e del fascino di certi confini, che incontrando altre zone del romanzo di Llosa e anche di William Faulkner, come per simpatia, si sono avvicendati in una stessa comune vibrazione, almeno nella mia memoria e quindi anche nel mio presente, nell'atto in cui questi elementi evocati ritornano alla luce e si confondono, facendomi però anche più chiarezza intorno e dentro.
Il tocco di Llosa è asciutto, originale, preciso e ispirato.  Nella prefazione al suo romanzo, intitolata "Storia segreta di un romanzo", dice anche questo: "Le esperienze personali (vissute, sognate, ascoltate, lette), che furono lo stimolo originario a scrivere la storia, rimangono così maliziosamente mascherate durante il processo della creazione che, quando il romanzo è concluso, nessuno, sovente neppure lo stesso romanziere, può ascoltare con facilità quel cuore autobiografico che batte fatalmente in ogni opera di finzione. Scrivere un romanzo è uno strip tease a rovescio, e tutti i romanzieri sono discreti esibizionisti". 

domenica 23 settembre 2012

Premio Monfelice per la traduzione 2011

sabato 22 settembre 2012

Elvira




Ho sbronzato con il grasso
bel rosso d'Ischia dai vetri
della cucina in blu della nonna
Elvira  – morta nella notte:
un infarto sbarrò nella gola
il pianismo di Enrico Simonetti
e il suo intimo gran balzo
nel mozzo febbraio del buio,
ascoltato quel sabato poco prima
della nostra premurosa buonanotte
alla televisione radio nazionale–
colmandoci l'ansia del pasto,
l'incarnato di pace diabetica
del suo viso appena raccolto
alla tristezza dei capelli la sera,
appena stanchi e meglio legati
alla nuca se non più riportati
da mia madre in un a solo indaco
e così assai medico e meno loquace,
contandosi tremanti le ultime pillole
di Carvasin dalla cucina ancora più scialba,
governava una gabbia di uccelli gracili.

Odore di case

Non conosco una casa che non abbia un suo odore. Ciascuna, a suo modo, lascia sempre una sua traccia quando la porta è aperta, per un particolare aroma delle persone che la abitano, per un tipo di legno, di tessuti, o per una strana combinazione di effetti oscuri, che nel loro insieme completano un quadro incrociato tra gli oggetti degli arredi, i loro cibi e gli abitanti.
Ogni casa incontrata nella mia vita, mi ha lasciato sempre queste tracce diverse l'una dall'altra, spesso poco compatibili ma memorabili dentro la mia aria, e quindi anche riconoscibili nel tempo, spesso  fedeli a quella prima percezione.
Così ogni libro.

venerdì 21 settembre 2012

Ultimi giorni per l'iniziativa letteraria di Narranti erranti e Starbooks



Tutto qui

Morte di un traduttore

a Glauco Felici

 Cervantes sosteneva che "tradurre da una lingua all'altra è come guardare gli arazzi fiamminghi dalla parte di dietro; le figure si vedono, ma sono piene di fili che le confondono": è questo il torto che si vorrebbe riservare a un grandioso tessitore come Lezama?
G.F.



 Apprendo della morte di Glauco Felici da un tweet in lingua spagnola, l'altra sera, poco dopo aver cenato. Il tweet diceva così: "Fallecimiento de Glauco Felici", tweet che proveniva dall'account dello scrittore spagnolo Javier Marías e che riportava con un link al suo blog, dove vedevo in una foto il traduttore sorridere con un'espressione luminosa e serena, mentre posava alla consegna del premio Monselice, ottenuto per la traduzione del terzo volume "Veleno e ombra e addio" ultimo romanzo di epilogo della trilogia dello stesso Marías "Il tuo volto domani" (titolo originale: "Tu rostro mañana").
In un primo momento devo riconoscere di non aver realizzato subito l'esatto significato del termine spagnolo "Fallecimiento", pur percependo che qualcosa di strano era accaduta; così ho controllato su di un dizionario Spanish - English, dove ho trovato il suo corrispettivo inglese: death. 66 anni, un infarto. Così ci lascia di colpo un traduttore di un così grande spessore e capacità, attraverso cui ho letto, riletto, straletto "Paradiso" di Lezama Lima, quasi tutto Marías, diversi romanzi di Mario Vargas Llosa e credo ancora dell'altro. Felici ha reso quindi luminose e felici queste frequentazioni folgoranti e indimenticabili, che devono alla sua mano la loro esistenza nella mia vita esattamente quanto chi le ha scritte.
È stato il tramite e il ponte ultrasensibile verso scrittori e scritture che ho molto amato e che amo ancora profondamente, che mi hanno conquistato, formato, attratto, difeso e rafforzato. Pur riconoscendo gli aspetti sonori ed espressivi del testo originale, le diverse considerazioni (basti pensare alla stessa disanima del corsivo d'inizio in cui Felici cita Cervantes e i fili degli arazzi fiamminghi), devo anche aggiungere che questi scrittori e queste scritture mi hanno raggiunto e rapito nell'emozione perché sono entrati nell'alveo della mia lingua madre, (io ricordo e ricorderò sempre nella mia lingua, e mai in nessun'altra), altrimenti non avrebbero trovato quel varco emozionale e intimo così ben riuscito e preciso, che me li ha svelati e rivelati in tutto il loro splendore, per quello che erano, che potevano essere e che sono e saranno stati. Ecco quindi l'importanza del traduttore, il suo ruolo vitale, la coronaria fragile e preziosa che consente il flusso, l'invisibile continuista che sostiene e conduce l'esecuzione.
Il testo che il traduttore mi concede, me lo consegna a me lettore, con tutto il possibile sfumato del suo originale, filtrato attraverso le sonorità lontane e i corrispettivi della mia e nostra lingua comune, l'unico varco principale  di accesso diretto, di contatto e di incontro.
Credo davvero che ritorni in ballo una questione di sensitività triplice, tra traduttore, scrittore e lettore, fatta di scambi, incontri, scintillii. Il linguaggio che io parlo, non è solo uno strumento codificato con cui mi approprio di informazioni o con cui ingurgito bit, ma è correlato a tutto l'impianto complesso e mutante della mia persona, non solo a quella che legge, ma quella che va a pesca, che corre, che fischia, che si arrabbia, che pensa o che si innamora. La mia lingua sarà così la mia unica possibile voce di questo momento, di questo attimo stesso in cui sto scrivendo, che cerca di prendere da quello che ha sentito il noto e l'ignoto, ancora una volta la sua possibile eco. Un traduttore di razza terrà conto di questo particolare in ogni passaggio, in ogni dettaglio e facendolo sempre con grande umiltà, come lo stesso Felici ha dichiarato, tenendo anche ben presente che la lingua di partenza, quella con cui lo scrittore ha immaginato, ha recepito, ha creato, ha tentato le evocazioni e le ha celebrate nell'incanto, sarà ben diversa così come saranno ben diverse le intenzioni e le modulazioni con cui quest'altra lingua tenterà di esprimersi e di imprimersi dentro il lettore straniero. La coesione di punti diversi è un lavoro di ricamo fatto al buio, spesso con il polso che trema, ma fatto di grandi luminescenze e di altrettanti chiaroscuri che daranno una profondità unica alla prospettiva d'insieme del testo, una certificazione lieve del suo non stato, o possibile nuovo essere vivo in altre zone, forse compatibili e possibili, anche se non ancora tracciate. Anche per questo Felici continuerà a condurci nel suo viadotto incantato del bel tradotto, senza più sfumare, come un sentiero sempre nuovo e mai battuto, attraverso le parole che ha riscritto e ricreato dalla cura sorridente delle sue opere, come se nuove o ancora mai nate. Così come con quelle che non tradurrà e che continueranno a parlare, in ogni caso, del suo tocco possente e visivo da arazzo fiammingo.

giovedì 20 settembre 2012

Imparare il leggere e la lentezza

Avverto l'apprendimento della lettura come un processo sempre aperto e in perenne espansione. I codici si apprendono nei primi anni, tutto quello che i codici non dicono o che dicono sarà una sfida aperta, in continua combustione. L'averne appreso da bambino i rudimenti, non significa saper leggere qualsiasi cosa come andrebbe davvero letta. Ogni libro cerca il suo radar. Anche i lettori, come gli scrittori, devono formarsi un proprio radar, al proprio ascolto, alla qualità di un suono, per incontrare un libro nella giusta o anche ingiusta profondità, ma che sia un attraversamento di più strati e non di pagine. Questo perché anche la lettura è una faccenda creativa, assolutamente creativa, come la scrittura. 
Ma qualcosa che si è appresa non sempre si è imparata del tutto. Posso apprendere la tecnica pianistica senza viverla nella musica ma solo nell'esercizio ginnico a casa, e quindi non integrarla nel pieno della mia vita aperta (anche lo scrivere rischia di diventare un esercizio ginnico, perfezionato al massimo, ma senza un campo aperto di confronto, di scambio, di crescita, di ricerca, di stimoli, non ci sarà alcuna forza musicale, ma solo suoni brillantini e intonati. Muti). 
Pensavo stamattina giusto al tempo di posa del mio sguardo sulle parole lette, alla necessità di silenzio, all'avvicendarsi di pensieri paralleli, intrinseci, disturbanti e del tutto estranei al testo, e di quanta attenzione richieda tutto questo mondo così mutante e poliedrico. Quella stessa attenzione del lupo alla luna. Quindi sto imparando solo a rallentare e a rallentarmi, e solo in questo modo, dentro le parole, saprò coglierne gli attriti, i magnetismi, le luci mostrate e i riflessi velati o invisibili, gli odori nell'aria che cambia, cercando di collaudare nel buio un mio piccolo radar, ma soprattutto rallentandovi lo sguardo in un altro tempo, andando, ritornando, cercando ancora indietro e poi di nuovo più avanti, ma senza alcuno sforzo. Accostandomi a qualsiasi pagina con l'occhio fresco e calmo del lupo bianco, nel suo grande silenzio.

martedì 18 settembre 2012

Tristezza d'albergo (Fantasia verticale)



Stanza 
doppia,
da un 
varco
smarrito
di
costa
(o
film
sporco
di vacanze 
e opulenze
piccolo-
borghesi),
le mogli
ancora
troppo 
giovani
e
scortesi,
afferrate
all'inguine 
dalla
saliva
estiva 
di 
baci
da
lupi,
avvitati
con
la 
tosse
addosso,
quando 
scricchiola
in fuga
d'eco
alle
tue 
spalle
nude
il giradischi
dell'albergo
che
si
sbanda
la
sera
nei
tuoi
occhi
più
oscuri
già
sparsi
di aperto; 
e ormai
gli 
abbracci
avvolti
nel
cappello
affermano
la
tua
tristezza,
sfumano
i campi
d'asciu-
gamani
in
balli
accesi
di
sala
e
più
lontani.

Come un fatto, come una cosa


Questo è uno spunto duro e interessante di Alfonso Gatto, estratto da "Parole a un pubblico immaginario", molto vicino a una mia visione ancora "brusca" delle cose, ancora così lontana da tutto quello che avverto pulsarmi intorno e che mi dà disagio, incarnando perfettamente un mio piccolo ma testardo e pregnante pensiero sul linguaggio espressivo della parola, in un'esperienza vasta e più limpida di una ricerca costante, vista nel suo senso lato e quasi sempre frenata sul nascere.

"Le polemiche, le definizioni mi hanno lasciato intatto il mio modo brusco di sentirmi vivo e di riconoscere la poesia con franchezza, come un fatto, come una cosa.
Io odio gli uomini che la credono un problema, che vogliono ridurla alle proprie ragioni, che non sentono il terrore delicato in cui essa è sospesa ogni volta a trovare la sua voce al momento in cui tutte le parole tacciono".
Alfonso Gatto

lunedì 17 settembre 2012

Propositi per autunno

Pochi.
Camminare, molto, che non è mai abbastanza. Camminare nel silenzio, in qualsiasi ora senza una meta precisa. (Vedi Alan Watts).
Correre. Nella corsa il pensiero spesso si azzera, qualche volta si accentua, ma non sempre. In ogni modo qualsiasi cosa avviene ne ritorna più dura e più pura. Correre è creativo.
Non pensare solo al proprio dire, se non costretto da una circostanza o da un'urgenza. Ma antecedere alla febbre del proprio dire, la sapienza chiara dell'ascoltare, chiunque dica, anche chi dice senza essere costretto da una circostanza o da un'urgenza.
Cercare le "Conversazioni sul cristianesimo" di Mario Luzi e "Diari" di Klaus Mann (che per la fretta di ieri pomeriggio mi sono lasciato sfuggire).
Frequentare dal vivo il più possibile gli odori e gli ardori dei centri storici. L'insondabile. Di prima sera o di mezzo mattino.
Revisionare il materiale con la severità giusta, ma anche con la dolcezza del distacco, quella della lontananza da un certo luogo e non solo del percorso asettico del laboratorio zooprofilattico. (Correggere con le mani sporche).
Non pianificare troppo, ma non condannare mai chi pianifica.
Buttare ancora giù quello che preme, senza pensare troppo al suo aspetto formale, ma al suo suono e sua relativa risonanza, anche al suo tipo di pressione, al suo peso. 
Verificare il silenzio tra le parole; il dolore del linguaggio che freme e che non può ancora o forse mai. Il suo movimento ginnico di spasmo nell'oscillazione tra mutismo e possibile schiusa o declino.
Imparare ad ascoltare gli altri e ad amarli per quello che dicono o per quello che provano a dire, mai per convenienza o per evenienza, ma per pura effervescenza.

Sviluppare in qualche modo questi pochi schizzi che seguono, ancora sgocciolanti, nati lungo la piazza XXIV Maggio, in risalita verso la zona marina e più solitaria, passeggiando, appena qualche pomeriggio fa:

Di questa luna d'aria
ne volse vela il tuo viso
al suo nudo di sonno,
disceso a una tempia
dal cotone bianco
delle lievi marine.


Lo specchio di lino
di una darsena
fu il verde dell'uva
che accorse il sereno,
la serata già nuova
dai lumi rosa nelle case.




domenica 16 settembre 2012

Impressione ed espressione

Dovendo riazzerare, cercando un tipo di percorso più lucido ma anche più ispirato, allora direi che il problema dell'esprimersi e della ricerca di una propria espressione, di una propria forma espressiva, non dovrebbe esistere fin quando non affiori un'impressione adeguata che ne generi il senso. Da questo pensiero immagino così di non esprimermi se non consapevole o anche inconsapevole della forza di un'impressione, del suo disturbo,  e non di una trovata, qualcosa di cercato ma di non provato, che giustifichi in qualche modo la fatica, o la stupidità del percorso. Una semplice regola, forse una regola banale, ma che mi imporrebbe di non dedicare alla mia espressione, o alla ricerca di una certa formula espressiva, nessun tipo di logorante processo, che se non supportato da quello che vi è impresso, può attorcigliarsi su se stesso e soffocare. Parlo quindi del seme, del seme che non si decide, non si conforma, né si riabilita a una certa collocazione più o meno precisa, ma esiste come un momento difficile da sentire nel presente, quanto da codificare in un processo di memoria, quindi attraente nel suo mistero di impresso e di imprendibile. L'impressionabilità è già parte dell'atto creativo, ma non ha bisogno di essere necessariamente manipolata per un qualche processo, perché è già completa e naturale così come appare, misteriosa, sfuggente ma nitida e viva nelle dinamiche del ricordo. Non controllata. Così come la mia vita, le mie scelte, le mie caratteristiche di uomo, non potranno essere valorizzate o ridimensionate da quello che cercherei di esprimere, pur facendolo nel modo migliore, il più originale. L'impressione farà parte di un presente imprescindibile quanto vago, che non sempre dovrà confluire in una certa specifica voce o in una certa forma. Vi sono dei momenti intensi e molto belli della mia vita, che non ho mai sognato di raccontare, di scrivere e di descrivere, per la sola ragione che sono loro, da soli, a farlo di me e con me, a descrivermi con il loro apparire in un mio stato di intensità che non si ponga confini e che si basti a se stesso, rendendomi parlante del mio star muto e nell'ascoltare. Lo scrivere come atto di ascolto religioso verso me stesso. Ritornando al nodo, questa parte di me che vuole parlare, dovrà nutrirsi del suo freno, della sua bocca chiusa, e non deve nutrirsi o tentennare nelle apparenze di un espresso che non esiste perché nato da un procedimento troppo logico di impressioni costruite all'occorrenza.
Credo che esistano due categorie fondamentali di problematiche espressive: non trovare le parole per dire quello che si prova e che impressiona, e  non trovare impressioni nella propria vita per le proprie parole. Io mi sono trovato a districarmi in entrambe, spesso senza deciderlo, e mi sono accorto che tra le due fatiche, la più spossante e meno remunerata sarà di certo la prima. Nella prima si potrà mancare l'impressione accaduta, che come dicevo sopra non ha a che fare con una struttura creabile ma  contiene già nel suo nucleo il suo senso compiuto. Ma si rimarrà comunque, e in qualunque caso, imbevuti di qualcosa, impregnati, anche dello stesso sforzo, prima che arrivi la dimenticanza a sfumarci e nasconderci il provato o quello che si è avvertito di impressionante e quindi di nutriente, come fattore modulante, invasivo, e che voltandoci indietro non ci farà sentire meno vuoti e meno ricettivi verso quello che ci accade e che si sente di un accaduto (o anche di qualcosa di sentito e di non ancora accaduto).
Diverso il contesto strategico dell'altra categoria, dove spesso la trovata che deve sostituire la mancanza di un'impressione, potrebbe centrare anche un certo bersaglio, un effetto poderoso, ma lasciare dentro e intorno qualcosa di troppo asciutto, che evapora e che diminuisce l'attenzione alla sensazione fasulla e mai stata, sacrificandola alla circuizione di un risultato meditato anche se immediato.
Dovendo compiere una scelta consapevole, perferisco intessere un telaio dalle cose che mi hanno formato del loro silenzio, della loro violenza, del loro calore o dolore, cercarle ma non formarle dalle mie tenebre senza nessun proposito espressivo ragionato, quindi esprimerle perché continuazione naturale del processo avviato dell'impressione, e non il contrario. Dovendo riazzerare, come credo sia giusto e liberatorio fare, più di qualche volta. In certi casi lo scrivere è il riazzerarsi di continuo. Questo al momento rimane un proposito accattivante. Un'impressione.

sabato 15 settembre 2012

Una stradina di ghiaia


Una stradina di ghiaia

nella luce fa di gioia
qualsiasi passaggio
che tu viva
o che tu muoia
nel sole muto
è nella pioggia.
Le foglie cadono
sul bianco fino al buio,
come la neve al contrario,
un dolce corridoio
che dalle tue spalle
è come un arcano.
Anche i suoni,
come dei cluster,
le mute folli dei cani
o gli altri spari,
hanno quella luce
chiara dei sassi
quando ripassi.
Quel tratto
porta ad una
casa vuota,
dove un tempo
una piccola morta
è stata amata.

Dal 23 novembre 1937



L'unica gioia al mondo è cominciare.

Cesare Pavese

venerdì 14 settembre 2012

Rocce a dirupo (prova di schizzo)



Ma quanto potrà mai rimanermi
di questa luce mai calma, alla costa,
dirupo negli occhi è una memoria
vaga che illuna la roccia di chiari.

Nelle voci lontane dalle case
azzurrano i massi del pallido vespro,
che incammini nella bruma le vele
agli anni fragili dei fidanzati
dai visi spenti-accesi di candele.

giovedì 13 settembre 2012

Di nascosto

Immagino di nascondere quello che rivelo, e quello che mi rivelo rivelandolo alle mie poche parole inventate, spesso residui di molto altro, che ormai è già passato nello stesso momento in cui è manifesto. Scritto di nascosto, e anche di nascosto da me. Maestri indiscussi di questo sono i bambini, che seminano terrore anche per pochi istanti di potere, spesso non sempre involontario e troppo incosciente di sparizione, per provare la resistenza di chi li ama a immaginarsi monchi di loro e della loro realtà, senza l'aria e senza più vita, anche per un solo momento è per sempre; ché quella mancanza è eterna e paralizzante, è feroce, e non ha più un tempo. L'esprimersi, anche se per pochi istanti, con il dominio assoluto della loro assenza. 
A circa tre anni di vita, ebbi anche io un'idea simile, ma che durò molto più di pochi istanti. Ricordo ancora il terrore negli occhi di mia madre, quando si accovacciò per abbracciarmi, da illeso e da ritrovato, avendo io deciso di seguire per l'intero litorale un anziano venditore di palloncini, che procedeva senza accorgersi della mia invisibile presenza e assenza instancabile alle sue calcagna. Misi in subbuglio, senza saperlo, tutti gli stabilimenti. Il mio minuscolo nome entrava e usciva dai megafoni, come il sole di quell'ora dai vetri delle case sul mare. 
Come qualcuno che agisce di nascosto, mi sento ancora in delitto di apparire per la sola possibilità di celarmi nell'apparizione, presente e assente o presente solo perché assente, e non per essere visto e tradito in una forma troppo nitida, conclamata, accaduta. Nella contraddizione avverto un filo di coerenza. Ancora un altro aspetto: il silenzio di chi è nascosto parla di quello che penso e che non decido di pensare, (se decidi di scrivere cose che hai deciso di pensare, è perché qualcuno te ne avrà illustrato la convenienza, l'utilità, l'efficacia. Il mio principale disagio, invece, è proprio questo, l'esprimermi per convenire a un solo tipo di risultato convenuto da chi pensa che la sua idea di scrittura e di lettura, mentre legge ciò che scrivo, sia un parametro convenuto e assoluto, già concordato e quindi da me infranto), è ancora quello che rimane dopo una seduta di scrittura, anche la traccia di un solo rigo o del suo soggiorno medianico. Che se tutto andasse sfumato o ancora peggio frainteso, trasformato, disatteso, dimenticato, allora sarà ancora così più delicato il farlo di nascosto, nella sua purezza - qualcosa fatta di nascosto, ha la leggerezza ma anche il peso sul petto del suo spavento colposo, la brezza interna che spezza il fiato e le ossa per chi lo intraveda e non ne è mai pronto. 
Parlare poco per dirsi molto, o farlo tacendo. Tacere scrivendo è la magia che riempie di senso il tentativo e lo ricolma del suo primo gesto da un fondale paludoso, gli occhi di chi comincia ad amarsi mentre si guarda, a volte senza essersi nemmeno mai parlato; o dallo sguardo di mia madre giovanissima, sulla spiaggia, che mi guardava con i miei stessi occhi, le sue ginocchia mi arrivavano al petto quanto il suo tremore infantile. Di quello che scrivo così lo nascondo a se stesso, lo scrivo per completarlo del suo celato inganno involontario, della sua grande occasione di amore o di morte andata perduta in partenza, senza aspettarmi nulla che non sia già stato e già nascosto. Rivelato alla sua stessa ombra, come un bacio muto nei capelli di chi muore o di chi sta già dormendo.

mercoledì 12 settembre 2012

Sperlonga notte



Quando in un ragazzo,
nella mano aperta sul muro,
batte l'umido del mare
e il suo darsi d'uomo,
nel buio del suo sguardo
scese un silenzio di lumi
nel giorno - il più lungo -
le finestre stanno certe
al suo cinema di pietra:
"ma quanto autunno
che mi sperse
del suo esser solo,
se guardandolo
poi dall'alto
del paese,
amore mio,
dalle lanterne cave
il rosato delle case
è alla notte ventilata
del suo amore".

martedì 11 settembre 2012

Capriccio settembrino

Il processo di scrittura nella mia vita simula e dissimula il disordine perfetto di un misfatto, un capriccio, o meglio la grande occasione di esprimerlo e disorganizzarlo in un contesto aperto, forse anche creativo, ma che non lo inserisca integrato in una sua morale, lo disperda nel tempo, come il panno di una vela lungo un tratto di costa. Un gioco di forme scomposte, indugianti. Un disordine che irradia una strana luce di sfida alla mia impossibilità di continuare, di impormelo nella possibile sfiducia che il mio percorso potrebbe ispirare (ai giovani sovrani delle convenzioni). Poche le forme intraviste, ma che comunque mi appartengono, pur se velate da una costante fibra di estraneità - il mio strato più intimo sarà forse quello più estraneo ed etoregeneo, irreperibile a me stesso come al mio interlocutore più lontano e murato dalle sue verità; e quando avrò trovato per lui un codice giusto, comunicabile, il veicolo per renderlo commestibile e infallibile, accontentandolo, lo avrò condannato per sempre alla sua infinita impotenza espressiva. Prenderà invece la sua forma da un informe complesso e angusto, disordinato e capriccioso, che a sua volta parla di forme ancora spettrali, larvali, delle quali avverto l'ornato del disegno creaturale ma non ancora i limiti nervosi della pagina, (le sue misure di scuro sul bianco, larva di mosca carnaia). 

 Una sensazione: da un viso molto assonnato, i capelli che lo avvolgono, che mi apre una porta senza che io abbia bussato (quello che scrivo è qualcosa che ho cercato e che sto cercando o qualcosa che a sua volta mi cerca, mi tocca, mi disturba? Sarò io lo stalker di me stesso o la vittima predestinata di qualcos'altro?): non ha ancora una fisionomia ma ne riconosco il filo spento e perpetuo del sorriso, la chiarezza dello sguardo e il suo colore preciso, anche dagli occhi chiusi, senza una parola. I colori di un viso non hanno mai avuto bisogno di uno schema di linguaggio, ma solo della giusta luce di osservazione, di silenzio. Così la tinta delle pareti ancora al buio, il brillio di una fiammella di cero sotto un tegame, l'odore di un asciugamano bagnato. Non spero di comunicare tutto questo, ma almeno di sfumarlo, di ammantarlo del pastello di una risonanza che ho già avvertito al primo contatto, anche per un solo istante, e che lo riporti a sua volta a un percorso parallelo di ricezione, verso altre forme nebbiose ma intensamente più confidenziali, come se dette e scritte all'orecchio. Che sarà poi quella pressione sottile che attraversa le tempie, un filo di vento alla gola, la stessa del vizio del giocatore perso, la sua patina di leggera follia nello sguardo che non guarda ma attende e conta il momento adatto per puntare. Così la forma da destinare al vapore della pressione di un'idea di scrittura, alla fiala azzurra e dorata del suo siero, che entra nel braccio come una canoa ingoiata da un corso d'acqua. 

Come fare e disfare un letto, durante la notte, alle prime luci dell'alba, in una stanza mal riscaldata. Far avvertire un canto di amore in una pietanza cucinata. Da un piatto caldo di cucina, si possono scorgere gli occhi della cuoca nascosta, i suoi piccoli passi gentili, la nocca veloce dei suoi lacci, la sua età, i suoi pensieri, il suo umore, le sue fortune o i suoi drammi; così come da una voce al telefono le gambe, la linea del collo e della fica, la frangetta o le scarpe calzate a metà, la matita nella bocca di chi sta parlando. Penso a quanto siano libere le proprie sensazioni associate, a quanto precedono la monotonia delle cose troppo colte e anche più note perché contrassegnte da elementi certi distintivi, irrevocabili, come quelli che oscuravano con gli adesivi colorati e rotondi la luce naturale dai vetri della mia stanza. Scrivere di quello che accade alle proprie sensazioni mentre il pensiero le cerca e le disarma, simula e dissimula l'idea del disordine a cui accennavo all'inizio. Sarà ancora una questione sfumata, il taglio dei capelli che nasconde ma insieme mostra la fragilità della nuca, dove da ragazzini piovevano tuonate di scozzetti, per inaugurare la bontà e la freschezza delle forbici, il ronzare della macchinetta, e a testa piegata e chiudendo gli occhi scriverei per una vita intera di una sola nuca, di un collo, di un viso sbiadito, senza ripetermi, come se in quei dettagli o frangenti si nascondesse tutto il mio espresso inesprimibile, il mai e il non ancora detto, il parco estivo acceso e quasi vuoto di anime a metà settembre, che mi spezza il respiro del suo solo silenzio.

lunedì 10 settembre 2012

Ombre di porto


Tetide e Quirino nel bianco
dell'acqua c'è quasi il mattino,
e il buio fresco nella notte
chiaro come un canto di neve,
da una luce facile e lieve
stando feeriche sul filo dell'acqua
e in silenzioso sbarco di sonno,
ricamano i fumi di un fondale
contro balconi di geranio imperiale

tra gli odori dei mari e dei caffè.

domenica 9 settembre 2012

Fulgore e solitudine in Karl Rossmann

Della splendida figura di Karl Rossmann, singolare protagonista del romanzo "Il disperso" di Franz Kafka, mi colpiscono, sopra tutti gli altri, due aspetti: il fulgore e la solitudine. Due linee perfette, in leggero contrappunto, divertite, controllate e controbilanciate, quando si diramano dalla freschezza e dalla dinamicità del giovane Rossmann, a tutto il contesto più febbrile  della costruzione. Attraverso i vari strati dei suoi tessuti, le sue continue fragranze, i suoi mari, dove il ragazzo sbalza e si muove nella sua luce, come l'archetto di un violoncello nelle mani di uno strumentista prodigioso. Così le atmosfere, le ombre e le voci, le vibrazioni che trapassano il cranio della storia, sono tutte ventilanti di quel getto continuo di latente ardore, pur se esposte e intrise da una cupa e costante maledizione (ma sul destino di Rossmann forse si può parlare ancora di una spinta sinistra e non più di una trafittura letale e definitiva, quanto meno rispetto agli altri due protagonisti della trilogia, Joseph K e K.(vedi le analisi da Citati, Calasso, Brod). Il fulgore dell' a solo sarà anche la sua solitudine, quindi, così come la sua solitudine sarà astratta e contenuta nel suo stesso fulgore o parte rispecchiata e pluiridimensionale dello stesso poliedro. E ogni passo speranzoso e paziente che spinge in avanti (o meglio: all'indietro o verso il basso) il nostro "piccolo" Karl Rossmann (così come lo chiamava la grassa Brunelda), si delineano e si compensano parti snelle di una fuga classica poco prima della stretta. Abbastanza simili e comunque non troppo lontani, nel binomo crudeltà-innocenza, nella ricerca disperata di una dimensione archetipica affettiva e di identità, gli aspetti del protagonista de "L'uccello dipinto", nel terribile affresco di Jerzy Kosinski: dove forse al fulgore Kafkiano dell'America, si accompagna una solitudine più muta, ma non meno cruenta e desertica, se ancora così vicina alle espressioni di Rossmann, al suo sguardo abbandonato e rapito (e poi proibito) dalla finestra sulla strada (e oltre la sua città scintillante e armata di spada), dai meccanismi della complicata scrivania, alle canzoni popolari e sognanti del suo pianoforte americano, dove affiorano le prime ombre di Chaplin.

sabato 8 settembre 2012

L'azzurro della notte: appunti e stralci (Parte II)

Non vedo solo crudeltà gratuita nel rituale del Corsi, ma anche l'arabesco di un desiderio atavico più complesso, la ricerca di un ruolo, della stessa urgenza e tragicità di quel ruolo del buono scrittore che il professor Plamf ha appena perduto e che sta cercando di recuperare. La pulsione e la tensione al desiderio di Corsi non è poi così lontana dalle vecchie pulsioni di accudimento che un tempo innamoravano il professor Plamf nella sua infanzia "Per una sola notte, che male vi fa...". Che Plamf ha ormai tutte dissolte, con il tempo e con la maturità, inseguendo un ruolo fantastico e creativo irrealizzabile, quanto frustrante. Corsi, al contrario, le ingloba nella nevrosi di un possesso demonico e affettivo, proseguendo nella direzione opposta, verso l'involuzione e la circuizione piscotica, nei passaggi lenti e toccanti del concerto d'opera alla radio, nei vetri tremolanti della cristalliera, poco prima di cena, durante l'acuto tremendo di un grande soprano. 

 Romilda appare e poi scompare, come un soffio di vento o al cuore, il fumo da una coperta, un fantasma dietro una finestra appannata. Riapparirà in una piccola rivisitazione o monologo del Corsi, immobile su di una poltrona, ma senza musica. La radio è al minimo. Le mani screpolate, come unico reale colore e accessorio,"il sorriso fioco del mal di cuore". La sua assenza diventa parte viva di quella casa, di quelle altezze soffocanti dei soffitti. Dei suoi echi notturni nelle stanze vuote. L'assenza copiosa del materno, ma in primo luogo per Corsi.

 Scrivere disegni o di sogni. Una flessione semantica nelle grinfie di un cane meticcio. 

 Corsi guata e guasta. Gusta l'oggetto guatato e guastato, come Lampo il latte nella ciotola della prima notte, con la sua lingua bandiera. Mentre Plamf sfiora le pagine nelle sue ombre, prima di crollare di sonno, senza addentrare e addentare né leccare la sua stessa patina di verosimiglianza e irrealtà. Il pattinaggio come pulsione di libertà e di sogno. Così il passo trasognato della ragazzina nei viottoli del ghetto bagnati da luce celeste. La trafittura come pulsione e ragione di potere e di volontà limitante su chi si ama e si protegge contro la pericolosità del suo relativo immaginario. 

 Il ghetto ebraico e l'oltreghetto come quinte di un piccolo palco d'opera di provincia, ma dalle scene spoglie, inquinate di luce notturna che si sposta sempre di più verso il grigio, come in un crescendo imploso (il perla dei pantaloni del Corsi, lungo il corso Praga). Così la scrivania di Simona, ingrigita d'infanzia. Le matite colorate che si mischiano con le tegole e con le lucine accese dalle finestre di fronte. Il cappello e la sciarpa sulla sedia, come se utilizzabili da un momento all'altro, non riposti ma appena disposti e disponibili, provvisori verso un possibile improvviso di cattivo tempo, una calata di gelo. Così i figli della vecchina Sirenti, le loro caviglie dal balconcino in rosa dell'oltreghetto, in uno dei loro turni più dolci di veglia e di lettura, in attesa che qualcosa accada o non accada. Sarà forse anche questa una delle chiavi (anche del leggere e dello scrivere): la chiave magica.