Il disgusto arriva quando le cose da dire diventano creature, forme di vita che ti costringono a consacrarle padrone di un tempo inutile che si illude prezioso e indispensabile del suo frastuono. Una forma confusa di religione. Il solo pensare quello che sia giusto dire, il come dirlo, mi immola a una relazione spasmodica e inutile con queste strisce creaturali e voraci, che mi sottraggono il mio cibo come tenie e mi tolgono luce e spazio.
Che senso ha: allora?
Che cosa c'è da decidere, da concludere, da confermare? Ma per chi, poi? Per qualcuno che mi sta aspettando, che mi chiede di parlare, di dire la mia, quando non sa neppure che esisto?
Quante parole e quanto disgusto, a volte, il solo progettare un pensiero, la sua condivisione, il suo delitto.
Che cosa ci sarà più bello del vedere una mucca che mi guarda e non dirlo. I suoi occhi mi allattano. Poi basta.
Che cosa avrei più da dire? Una mucca pezzata che mi allatta con i suoi occhi da cimitero è già un dire, il solo vederla. È già un dire il respirare la sua stessa aria. È già un dire il desiderio del suo silenzio tombale. Del tacere.
Non riesco a essere a mio agio con il temporale di questo dire, che si osanna e si esamina, si immola a se stesso, si punisce e si premia con lo stesso pugnale inferto nel vuoto. Un barocco infinito, che si compiace nel rincorrere l'espressione perfetta senza conoscere l'amore clandestino per il silenzio.
Vorrei rimanere muto, in un luogo aperto. Una casa azzurra che fuma, l'amore di un cane bianco. L'odore buono del fuoco.
Arriva la sera. Da lontano le ultime voci del giorno.
Il desiderio di rendere vivo questo mio mutismo, come neve da una finestra.
Non altro.
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