Che cosa è successo al tuo viso?
Così potrei dirmi, osservando un bel mattino lo specchio mutato della mia scrittura. Un suo evidente pallore, improvviso, un pelo di luna sulle labbra. Una linea di dolore, di stanchezza. Qualcosa che fino a ieri non c'era o che forse ancora non percepivo. Un agguato.
Quanto mi sarà chiaro quel viso per specchiarlo in una certa fisionomia. Per relegarlo nello spettro di una forma, in un odore lontano di casa, in uno sterrato dove mi persi, nello scintillio di un abbaino di campagna, in un sapore. Tutto questo può sformare il lago di un viso, dissolverlo e annientarlo in una condizione indefinibile di incantamento e dissolvenza al mio stesso stupore, a cui sfugge quello che nelle mie parole disaccade.
Scrivendo assaggio la mia disavventura. La scarpata di primo mattino, la striscia di cattivo tempo che divora l'azzurro sulla ferrovia. Il topo nel becco arancione del gabbiano reale. La traversa di un quartiere amato, un sasso dove inciampo, le tenebre di un pozzo artesiano. Eppure dentro l'abisso incaglio nello stesso richiamo, che mi costringe a continuare e a scrutare il mio nuovo sapore attraverso quello che traspare e scompare dalle mie parole. Il fantasma del loro osso, il senso triste di sovrumano.
Scrivere di questa scomparsa, che comincia nell'attimo impossibile in cui mi siedo e stendo la mano alla freschezza di un fuoco fatuo.
E quanto sapore in bocca che mi soffoca il dire. Quanto sapore e quanto vorrei sapere di questo strano sapore, avvolgere il capo sotto questa gonna di vento, dove scoppiano gambe che non finiscono.
Lo stesso terzo aroma che scopro quando mischio il gheriglio di noce alla fettina azzurra di banana, e poi imbuio la mollica di pane, o quando addento l'uva rossiccia con una sfoglia di grana: sono tutti incontri in cui gli aromi accendono un sapore terzo e altro, che ogni volta non è lo stesso perché lo riconosco.
Tutto questo sapore è la macchina che mi conduce e mi fa scendere nel retro bagnato di un cortile. Le voci spente di una scolaresca e il rumore infinito della pioggia, ginocchia sbucciate, scale a chiocciola e passeggiate lontane senza mai sfiorarsi.
Quando comincio a scrivere avverto il rumore delle grondaie e l'odore della pioggia che sgocciola dentro di me, in uno specchio lucido di riflessi, da finestre appena accese, e la nonna di sera tardi, appena morta, che canta
Ma cosa è successo al tuo viso, adesso è bagnato ma trascorre ancora, fino all'ultim'ora, questo filo di mistero che non mi lascia. La presa nel primo buio, il colpo d'ascia.
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