Avrei troppe cose da scrivere su questa prosa. Ne sono tante e preziose da non dirle.
Il bello di quando si ha da dire, è la possibilità di trattenersi il dicibile per altre occasioni, o comunque consentirsi il gioco dell'accenno. Sono emozioni e non solo pensieri. Quello che al momento so della sua prosa; giusto qualcosa:
asciutta, come un ginocchio rosa e sbucciato, appena lavato e riscaldato da una bocca aperta di una donna anziana o di un puma. Così ho avvertito la prosa di Kristof nella sua "Trilogia della città di K", misteriosa e incantevole sciarada, che parte come evento letterario per snodarsi come insetto della psiche, piaga e balsamo, paesaggio lunare e crematorio dell'esperienza e della memoria.
Il mondo del quaderno è la vita e il ritmo che sostiene sviluppo e avviluppo. Questo lavoro avviluppa, infatti, e non sviluppa. La cartoleria, le matite, gli odori della guerra e delle campagne aperte. La fame e la sete. Il sesso, il freddo, gli alberi e gli animali, o sono stelle del cielo o sprazzi dolci di letame appena rischiarati e composti da un fondo umido di pioggia.
Ma potrei ancora continuare e tradire l'impulso vitale di questo stile, che avvolge per ogni passo in avanti e affonda d'impeto, nei contrasti tra gli estremi, nella compiutezza delle armonie, nelle dissonanze.
Le figure della Trilogia si vedono, si odorano e si toccano. La Città di K. si abita e si vomita, con le sue radici, le sue tombe i suoi topi e i suoi fantasmi grigi d'insonnia.
Adesso ritorno nell'asciuttezza. La prosa di Kristof è impiccata sull'abisso di una sintesi magica, che rende difficile il solo pensiero di emularla o di definirla catalogabile. Non è scritta ma è grattata, come sollievo da un prurito del vivere, un fiammifero che schiocca sull'intonaco. È sospesa nel minimo che include la rara profondità del massimo. È dentro un mirino un attimo prima di uno sparo. Ogni sequenza un solco di frontiera con il mondo e con il filo di Lucas e di Claus.
Asciuttezza ma anche suggestione. Ho cominciato a leggere le prime pagine nella notte fonda di Domenica, con il freddo che batteva fuori e un piccolo lumino giallo che si faceva spazio tra le parole. I capitoli erano così brevi, essenziali e ipnotici, da non consentire la possibilità di una sosta, di una distrazione. Erano delle figure vive che mi toccavano gli occhi e la faccia come dita e non come lettere.
La scrittura è una malattia. La grande scrittura è una forma di ossessione, uno spasmo, una ferita in suppurazione. Rimane nell'aria e nella mente, come un pensiero fisso, ma non solo la storia, ma il modo operativo di questo linguaggio scarno e meraviglioso, che sembra tracciato su ogni foglio come l'esercizio indimenticabile di un dettato in tinta indaco.
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