Il racconto "Due compleanni" nasce e si delinea in un solo getto, una sera, diversi mesi fa, forse anche un anno. Rimane per diverso tempo accantonato, con le dovute correzioni di primo soccorso riservate ai testi nuovi.
Quindi la lunga stasi del buio, l'abbandono.
Quindi la lunga stasi del buio, l'abbandono.
Il buio per un qualsiasi testo è un momento prezioso di incubazione. Momento oscuro di una nuova maternità, ancora più prezioso quando vi subentra la dimenticanza.
Scrivere dimenticandosi e dimenticando lo scrivere. Credo che sia uno degli atteggiamenti più nutrienti e utili per privare del peso e di una luce artefatta e sbagliata i propri lavori o tentativi di scrittura. La restituizione al deposito del loro nulla.
"Due compleanni", così come lo sento adesso che ho appena chiuso e definito il suo assetto, è un racconto figlio di una dimenticanza che però lo ha tenuto sospeso come centro, attraverso una maturazione silente e parallela del mio sguardo, dei miei tempi e dei miei ricordi. Riaprire quel testo dopo tempo, credendo quasi di trovarvi dell'altro o comunque niente di quello che invece vi ho ritrovato, costituisce sempre una fase preziosa di verifica e di sorpresa. La storia è stata riletta con un occhio nuovo ed è ritornata nuova, come se iscritta, dalla mia rilettura, in una nuova misteriosa maternità acquisita e riattaccata con lentezza al suo stesso seno. Così come è stato interessante riscoprirvi tutti i punti che avevo fissato e prefissato, ma con la duttilità di poterli mutare o di riuscirli a modulare alle nuove atmosfere di un nuovo tempo sensibile e incatenarli in una strana gioventù di traslucenza:
prima di attaccare questo post ho aperto la finestra e ho sentito l'aria. Fuori c'erano poche luci, qualche bagliore di neon, il cielo alto e molto nero. Ancora il freddo e molto silenzio. In questo clima è nato "Due compleanni". Con il viso dentro una notte da una finestra di casa, quasi senza sguardo, senza ricercare stili, tecniche, effetti, tendenze, sapienze, ridondanze, stratagemmi, ma affidandomi all'innocenza dello scrivere, che sarà quella che leggendo la storia nel profondo, qualcuno o forse più di qualcuno raccoglierà o appena sfiorerà nel suo tema portante o anche nei suoi possibili affluenti.
È forse per la prima volta che mi sono avvicinato alla costruzione di un testo che racconta dell'innocenza, con un'apertura e una fiducia incondizionata al mio istinto e non alla mia logica d'istinto, sono due cose molto diverse e lontane. Non era più un tipo di fiducia sulla sicurezza tecnica impugnata e acquisita, ma un totale disinteresse a considerare un solo istante di vita che non appartenesse ai temi, ai ritorni e alle dinamiche naturali del racconto, qualsiasi potesse essere il risultato. Scrivere con la sicurezza di uno stadio o di un luogo certo di partenza, è l'errore più grande. Credo che ogni scritto presupponga l'abbandono a un nuovo tipo di ignoto, dove tutto quello che valeva un attimo prima di cominciare, potrebbe non valere più per la richiesta interna di quel contesto. La scrittura è prima di tutto disordine vivo, da cui spesso è difficile districarsi. Il mio compito è quello di mettere ordine senza schemi, ma con un tipo di logica che parta e si armonizzi da quello stesso tipo e archetipo di confusione e disordine, e non da un costrutto preorganizzato e preordinato a cui uniformarsi. Sarebbe troppo facile e anche comodo. Si sfornerebbero racconti come canzoni, sulle stesse progressioni armoniche, con piccole variazioni, preziosismi, piccoli cambi di melodia e un nuovo testo.
Non esisteva nemmeno l'idea di un risultato o del tentativo di ricavarne uno: alcune storie non hanno numeriche o confronti o riscontri. Non hanno soluzioni ma domande che si aprono ad altre domande o finestre aperte da spalancare, senza aspettare o pretendere altre risposte e certezze. Uno scrittore non può scrivere mendicando. Se scrive mendicando, allora nasconde una colpa o una mancanza. Può sembrare contraddittorio, ma la certezza e la sicurezza di una serie di dati acquisiti da elaborare e da sviluppare nelle prime fasi di un lavoro, mendicherà riscontri, attenzioni, aderenze agli standard e all'accondiscendenza. Non certo intimità di abbandono, che in questo caso è stato l'unico elemento certo che avevo.
Raccontare con innocenza e con intimità di abbandono, significa affidarsi al profumo e alla sensazione che mi ha portato ad aprire la finestra su quella particolare notte in formazione o in embrione, senza sapere nemmeno che cosa c'era da guardare. Non volava un'anima, ma c'era molto buio. Lo stesso buio fitto di una storia quando si è appena iniziata; è forse la fase più delicata, quella nebbiosa, ma è anche quella dove lo scrittore deve affidarsi, senza calcolare la prossimità di un confine o di un riferimento certo di approdo. Dovrebbe fare di quella perdita momentanea o forse prolungata, la sua piattaforma; in fondo è tutto quello che ha in quel momento, il resto non esiste e non c'è mai stato. È dentro quel tipo di fiducia istntiva che si snoda la tempera nell'acqua e si formerà un suo proprio colore.
Non credo che questo racconto abbia ripercorso dei moduli già noti o consueti alle mie abitudini o attitudini. È stato organizzato intorno a un fuso elementare, quasi una pagina di quaderno, ma di un' asciuttezza quasi epistolare, di chi prepara una missiva che non vorrebbe far partire o che non avrebbe nemmeno aver scritto, ma che in qualche modo gli scivola dalle dita e si continua da sola.
La mia impressione è stata quella di muovere il punto di vista nei tempi narrativi di un ragazzo, o di come mi sarei posto di fronte a questo racconto se mi fosse balzato nel cuore al primo anno di ginnasio – e forse è proprio quel mondo che ritorna e che rievoco. Questo tipo di semplicità, è quella su cui ho lavorato nella fase ulteriore di sviluppo, cercando di legarla in un costante diminuendo e mai in crescendo, e senza scostarmi da un tono confidente e molto fragile quanto poco appariscente di narrazione, accettando tutti i rischi che questo tipo di approccio comporta, ma non avevo scelta. Una storia funziona quando la scrivi senza nessuna possibilità di scelta. È solo quando non posso più scegliere che comincia la mia libertà.
Questa storia si mantiene viva sul suo leggero sottovoce, senza richiedere o mendicare attenzione. Ha una sua vita anteriore. Le luci del racconto si accendono senza saperlo, così quelle dei personaggi, che non ho sentito raccontati ma ravvivati da una circostanza che li tiene vivi o li rianima alle mie spalle, e quasi indipendenti dalla mia funzione creativa. Questi personaggi si organizzano intorno a una strana forza attrativa, che li rende così vivi da sembrare preesistenti e insieme prescienti della storia stessa. Sono insieme presagio, passaggio e momento passato, come se afferrati in una loro esistenza pregressa ma continuata, e non ottenuti da un vuoto, ma incrociati in una curva. Il concetto, o sensazione da cui nasce questo pensiero, non è così semplice da spiegare. Posso ridurre il tutto a un'idea di credibilità: dimenticanza nel non sapere se quello che scrivo sia o non sia vero, non stia accadendo o sia già accaduto anche senza il mio medium.
Una delle lezioni che mi ha dato questa storia: non deve esistere la paura del giudizio, dell'errore, ma nemmeno la speranza della riuscita e nemmeno l'ossessione del giusto o del perfetto, ma l'intimità di un abbandono. Quando scrivo sono solo al mondo, e non ho più certezze di conoscenze o di riconoscimenti di chi non scrive o di chi non ha mai scritto un rigo in tutta la sua vita. Non sono altro e non sono nessuno se non parte di quel firmamento di segni in formazione, ancora senza suono e colore. Un evento narrativo ha dentro il suo mare grosso, che non conosce al momento altra regola se non la sua forza e la sensazione di un suo orgasmico "tremendo" che scalpita ma che sa senza dire. La creazione è un arrembaggio nelle distese della mia ignoranza, della mia vita oltre le parole che ho capito e che ho imparato. È un momento primitivo che non deve accontentare nessuno al di fuori di se stesso. È solo in questa sottile accondiscendenza e intimità con la formazione psichica di quello che sta accadendo, che riesco poi a organizzare un tessuto. Mai da quello che conviene tessere.
Non ho consentito a nessun attimo di suggerirmi "come sarebbe giusto o sarebbe meglio se...a chi piacerebbe, che cosa piacerebbe, come funzionerebbe, come converrebbe fare, disfare, non fare", ma ho perseverato con fiducia nel buio più totale, forse perché avevo percepito l'arrivo di quel momento, senza nessuna logica economica ma con il solo desiderio di bagnarmene. La mia formazione e la mia esperienza, dovranno lavorare solo alle mie spalle e a mia insaputa, e continuare ad esistere senza esserci, in alcuni casi senza neanche comparire o respirare. Dimenticati e mai finalizzati.
Adesso posso chiudere la finestra.
prima di attaccare questo post ho aperto la finestra e ho sentito l'aria. Fuori c'erano poche luci, qualche bagliore di neon, il cielo alto e molto nero. Ancora il freddo e molto silenzio. In questo clima è nato "Due compleanni". Con il viso dentro una notte da una finestra di casa, quasi senza sguardo, senza ricercare stili, tecniche, effetti, tendenze, sapienze, ridondanze, stratagemmi, ma affidandomi all'innocenza dello scrivere, che sarà quella che leggendo la storia nel profondo, qualcuno o forse più di qualcuno raccoglierà o appena sfiorerà nel suo tema portante o anche nei suoi possibili affluenti.
È forse per la prima volta che mi sono avvicinato alla costruzione di un testo che racconta dell'innocenza, con un'apertura e una fiducia incondizionata al mio istinto e non alla mia logica d'istinto, sono due cose molto diverse e lontane. Non era più un tipo di fiducia sulla sicurezza tecnica impugnata e acquisita, ma un totale disinteresse a considerare un solo istante di vita che non appartenesse ai temi, ai ritorni e alle dinamiche naturali del racconto, qualsiasi potesse essere il risultato. Scrivere con la sicurezza di uno stadio o di un luogo certo di partenza, è l'errore più grande. Credo che ogni scritto presupponga l'abbandono a un nuovo tipo di ignoto, dove tutto quello che valeva un attimo prima di cominciare, potrebbe non valere più per la richiesta interna di quel contesto. La scrittura è prima di tutto disordine vivo, da cui spesso è difficile districarsi. Il mio compito è quello di mettere ordine senza schemi, ma con un tipo di logica che parta e si armonizzi da quello stesso tipo e archetipo di confusione e disordine, e non da un costrutto preorganizzato e preordinato a cui uniformarsi. Sarebbe troppo facile e anche comodo. Si sfornerebbero racconti come canzoni, sulle stesse progressioni armoniche, con piccole variazioni, preziosismi, piccoli cambi di melodia e un nuovo testo.
Non esisteva nemmeno l'idea di un risultato o del tentativo di ricavarne uno: alcune storie non hanno numeriche o confronti o riscontri. Non hanno soluzioni ma domande che si aprono ad altre domande o finestre aperte da spalancare, senza aspettare o pretendere altre risposte e certezze. Uno scrittore non può scrivere mendicando. Se scrive mendicando, allora nasconde una colpa o una mancanza. Può sembrare contraddittorio, ma la certezza e la sicurezza di una serie di dati acquisiti da elaborare e da sviluppare nelle prime fasi di un lavoro, mendicherà riscontri, attenzioni, aderenze agli standard e all'accondiscendenza. Non certo intimità di abbandono, che in questo caso è stato l'unico elemento certo che avevo.
Raccontare con innocenza e con intimità di abbandono, significa affidarsi al profumo e alla sensazione che mi ha portato ad aprire la finestra su quella particolare notte in formazione o in embrione, senza sapere nemmeno che cosa c'era da guardare. Non volava un'anima, ma c'era molto buio. Lo stesso buio fitto di una storia quando si è appena iniziata; è forse la fase più delicata, quella nebbiosa, ma è anche quella dove lo scrittore deve affidarsi, senza calcolare la prossimità di un confine o di un riferimento certo di approdo. Dovrebbe fare di quella perdita momentanea o forse prolungata, la sua piattaforma; in fondo è tutto quello che ha in quel momento, il resto non esiste e non c'è mai stato. È dentro quel tipo di fiducia istntiva che si snoda la tempera nell'acqua e si formerà un suo proprio colore.
Non credo che questo racconto abbia ripercorso dei moduli già noti o consueti alle mie abitudini o attitudini. È stato organizzato intorno a un fuso elementare, quasi una pagina di quaderno, ma di un' asciuttezza quasi epistolare, di chi prepara una missiva che non vorrebbe far partire o che non avrebbe nemmeno aver scritto, ma che in qualche modo gli scivola dalle dita e si continua da sola.
La mia impressione è stata quella di muovere il punto di vista nei tempi narrativi di un ragazzo, o di come mi sarei posto di fronte a questo racconto se mi fosse balzato nel cuore al primo anno di ginnasio – e forse è proprio quel mondo che ritorna e che rievoco. Questo tipo di semplicità, è quella su cui ho lavorato nella fase ulteriore di sviluppo, cercando di legarla in un costante diminuendo e mai in crescendo, e senza scostarmi da un tono confidente e molto fragile quanto poco appariscente di narrazione, accettando tutti i rischi che questo tipo di approccio comporta, ma non avevo scelta. Una storia funziona quando la scrivi senza nessuna possibilità di scelta. È solo quando non posso più scegliere che comincia la mia libertà.
Questa storia si mantiene viva sul suo leggero sottovoce, senza richiedere o mendicare attenzione. Ha una sua vita anteriore. Le luci del racconto si accendono senza saperlo, così quelle dei personaggi, che non ho sentito raccontati ma ravvivati da una circostanza che li tiene vivi o li rianima alle mie spalle, e quasi indipendenti dalla mia funzione creativa. Questi personaggi si organizzano intorno a una strana forza attrativa, che li rende così vivi da sembrare preesistenti e insieme prescienti della storia stessa. Sono insieme presagio, passaggio e momento passato, come se afferrati in una loro esistenza pregressa ma continuata, e non ottenuti da un vuoto, ma incrociati in una curva. Il concetto, o sensazione da cui nasce questo pensiero, non è così semplice da spiegare. Posso ridurre il tutto a un'idea di credibilità: dimenticanza nel non sapere se quello che scrivo sia o non sia vero, non stia accadendo o sia già accaduto anche senza il mio medium.
Una delle lezioni che mi ha dato questa storia: non deve esistere la paura del giudizio, dell'errore, ma nemmeno la speranza della riuscita e nemmeno l'ossessione del giusto o del perfetto, ma l'intimità di un abbandono. Quando scrivo sono solo al mondo, e non ho più certezze di conoscenze o di riconoscimenti di chi non scrive o di chi non ha mai scritto un rigo in tutta la sua vita. Non sono altro e non sono nessuno se non parte di quel firmamento di segni in formazione, ancora senza suono e colore. Un evento narrativo ha dentro il suo mare grosso, che non conosce al momento altra regola se non la sua forza e la sensazione di un suo orgasmico "tremendo" che scalpita ma che sa senza dire. La creazione è un arrembaggio nelle distese della mia ignoranza, della mia vita oltre le parole che ho capito e che ho imparato. È un momento primitivo che non deve accontentare nessuno al di fuori di se stesso. È solo in questa sottile accondiscendenza e intimità con la formazione psichica di quello che sta accadendo, che riesco poi a organizzare un tessuto. Mai da quello che conviene tessere.
Non ho consentito a nessun attimo di suggerirmi "come sarebbe giusto o sarebbe meglio se...a chi piacerebbe, che cosa piacerebbe, come funzionerebbe, come converrebbe fare, disfare, non fare", ma ho perseverato con fiducia nel buio più totale, forse perché avevo percepito l'arrivo di quel momento, senza nessuna logica economica ma con il solo desiderio di bagnarmene. La mia formazione e la mia esperienza, dovranno lavorare solo alle mie spalle e a mia insaputa, e continuare ad esistere senza esserci, in alcuni casi senza neanche comparire o respirare. Dimenticati e mai finalizzati.
Adesso posso chiudere la finestra.
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