Non sono mai stato troppo curioso degli elenchi alle lavagne. Delle righe bianche e un po' tremolanti che dividono i buoni dai cattivi, il bene dal male. Non ricordo se in classe mi sia mai stato affidato un compito così ingrato, di separare i buoni dai cattivi, per il raggio di una manciata di minuti entrare nel cuore dei miei compagni e farne un calco di amianto sulla tenebra. Non ricordo, ma nel caso mi fosse capitato di dover eseguire questo compito, avrei scritto nomi a caso, di persone del palazzo dei nonni, o già morte o mai esistite o conosciute. Di banditi dei romanzi e gnomi dei boschi o topi di fogne a cavallo di fagiani rosa e bianchi in fuga d'amore, ma di nessuno dei miei compagni. Chi ero davvero per giudicarli?
Tornando a noi: le regole e i decaloghi di scrittura. Vi sono ancora persone a cui luccicano gli occhi a sapere dove cominci il giusto e dove invece il sbagliato, la passione per gli elenchi numerati e comandati. Che aspettano la regola dallo scrittore di turno e spesso parlano con la sua voce, con il suo timbro, citando i numeri di quel comando stabilito e che non fanno un passo che non sia autorizzato da una regola. Tutti i decaloghi di questo mondo saranno sempre incompleti e imprecisi. Avranno sempre un buco nei pantaloni, in qualche loro fondo nascosto, ma non per un loro difetto o una loro tara strutturale, ma per il tipo di atteggiamento diffuso con cui si ingurgitano.
Se avessi dovuto imparare a memoria le regole fondamentali degli autori di alcuni decaloghi (che sono spesso anche i loro diretti trasgressori) e scrivere applicandole, cercando al massimo di non discostarmene, mi sarei ficcato una doppietta in bocca dal secondo paragrafo. Sarei curioso di sapere quali sono i decaloghi ereditati per poterne stilare uno che sia universale, perfetto e necessario per tutti. Immagino così compositori di musica che nel ventunesimo secolo scrivono evitando come merde le quinte e le ottave giuste, e così pittori che regolano la luce nella stanza, poeti che misurano i versi come sarti d'epoca, registi con il monocolo dorato e via dicendo, senza dire più quello che pensano o che sentono, ma il punto esatto di quel certo decalogo, nel quale assediano qualsiasi persona che non vede le cose come loro – non capisco come diavolo sia possibile scrivere allo stesso modo giusto di un altro, se io sono sempre più convinto che ciascuno di noi vede, sente e odora, immagini, suoni e profumi diversi, anche in uno stesso luogo. Mistero.
Personalmente mi auguro di sbagliare sempre di più, ma con un errore che scotti e bruci gli occhi e le dita. Un errore di una tale oscenità che scomponga le acconciature, e costringa le signore a mantenersi ben ferme le vesti, perché la mia oscena dissonanza potrebbe scoprirle le cosce così come le cicatrici del cilicio o degli azzurri forni pubici e metalunari. Preferisco scrivere nella bocca di un orco o aprirmi un piccolo tavolo pieghevole nell'inguine di una strega, ma farlo con il mio modo, con il mio mood. E alla fine rimanere più indietro, ma più vivo, senza citare gli avanzi di un genio, ma la ricchezza di un momento indimenticabile della mia vita che ho davvero amato e che mi ha divorato nel profondo per poterlo poi narrare nella sua intonsa genialità naturale.
Ecco perché credo che qualsiasi decalogo vada forse anche letto, certamente, ma non adorato. Non sarà più proficuo di una chiacchierata con un vecchio analfabeta, che ha scoperto da poco la poesia di Günter Kunert o di Philip Larkin, di cui riuscirebbbe a parlare per ore, senza smettere:
" Così ogni viaggio che faccio
mi porta, come portava lui in quella storia,
a nuove imboscate, a qualche nuovo errore:".
Che cosa c'è di più bello e di più poetico dell'azzardo pieno di un'imboscata nelle braccia di se stessi?
Il rock'n' roll!
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