mercoledì 29 febbraio 2012

Parere e sentenza

Se mi chiedono un parere, io lascio un parere, non una sentenza.
Oggi è molto diffuso l'atteggiamento di sentenziare quando a volte basta un parere, semplice, economico, asciutto.
Tutte le volte che qualcuno ha chiesto un mio parere, ho cercato di lasciare un parere, quello che mi è stato chiesto. Che senso ha trattare l'oggetto a cui lasciare un parere come capo di imputazione e quindi di giudizio? Non ha nessun senso nel contesto della relazione, ma ha senso per qualche meccanismo individuale di approccio alle dinamiche del rivestimento del proprio ruolo e non del contesto dove il proprio ruolo deve muoversi ed esplorare.
Questo può valere solo se l'addetto a rilasciare il parere che gli è stato richiesto intende e codifica la necessità di creare del richiedente, e quindi di esprimersi e di ricercare una propria strada nel proprio circuito espressivo, come meritoria di una possibile condanna e questo per una forma sottile o grossolana di reato espressivo, anche solo di molestia espressiva che gli si addebita a priori o anche in itinere. Se si intende un creativo come una persona in debito per qualcosa e quindi giudicabile o anche condannabile per il solo reato di scrivere, allora ci si muove nel territorio ostile della sentenza. Possibile, questo. Ma non altro.
Questo è solo il mio parere, naturalmente, che esprimo anche se non richiesto.
Non è sentenza di giudizio ma parere.
Chi non lascia una sentenza sarà forse meno sicuro delle proprie idee in merito? O è solo la sua indole?
Chi lascia un parere, quando gli viene chiesto, non difetta di tenacia di giudizio, ma risponde in merito al ruolo che gli è stato richiesto.
Tutto qui.

venerdì 24 febbraio 2012

Il Disabitato disponibile su Feltrinelli ebook:

giovedì 23 febbraio 2012

Due compleanni: voce narrante e tempo del linguaggio. Racconto-studio

Ritorno sulle dinamiche del racconto "Due compleanni" (titolo modificato di recente, essendo nato come "I due compleanni", una determinazione che mi sembrava troppo dura e che mi ha dissuaso da sola a mantenerla.)
Dunque, apro con la precisazione di considerare il testo in oggetto come racconto-studio, o studio-racconto, non importa. Questo non perché sia incompleto e inferiore rispetto ai racconti normali, ai quali non ho aggiunto, al momento, questa definizione, ma perché mi ha consentito, in corso d'opera, di affezionarmi all'idea di uno studio a matita, con tutte le informazioni e le libertà del tratto leggero e provvisorio di grafite in una certa fase di un certo percorso. Una in particolare: la voce del punto di vista livellata a un certo tempo linguistico di memoria e di vita. 
Il primo punto, forse anche il più importante, secondo me.
La prima persona su cui sviluppo la narrazione, che è anche il protagonista della vicenda, insieme all'inseparabile Denver Spike, saranno i due elementi che muoveranno e sui quali si articolerà la narrazione. Si tratta di due ragazzi. Adesso ci sarebbe da stabilire il tempo di vita della voce narrante, e che relazione di tempo abbia con il tipo di linguaggio che la storia ci rivela appartenere al fuso di vita del protagonista ragazzo.
Mi spiego: chi racconta narra e ricorda di un tempo relativamente lontano, che solo verso il finale verrà focalizzato e rivelato in relazione all'età del personaggio; di un tempo nel quale i pensieri attuali, quelli del momento della narrazione, appartengono alle dinamiche e ai ragionamenti di una persona diversa da quella che si muove e che si racconta, ma anche dalla stessa  che racconta, dal momento che il POV è in prima persona. Questo elemento, analizzato più nel dettaglio il tipo di stile narrativo utilizzato, mi ha fatto scorgere una sorta di regressione, del tempo presente di chi narra, verso la modalità narrativa del tempo rievocato dalla memoria, e quindi di come sarebbe stato narrato quel tempo in quel lontano presente che ritorna, e nell'età di espressione linguistica che avrebbe avuto quella voce allora, con il modo di pensare, di vedere, di rielaborare e di raccontare, propria della sua reale età, l'età che ha avuto nel periodo dell'accaduto e non nel periodo di rielaborazione e di ricordo dell'accaduto. Questo l'ho scoperto lungo le riletture e le successive scorse di modifica delle bozze. Una scrittura che sfiora il diario di bordo di un adolescente cresciuto, il suo occhiale sul ricordo che rivive e regredisce il narrato di chi ricorda e di chi narra.
Pare così che si narri di un tempo finito ma che ricomincia in un nuovo presente, soprattutto perché, oltre a ritornare al momento storico dei fatti, ho adeguato di concerto il linguaggio e la maturità linguistica del ragazzo come era allora, coetaneo e amico del cuore di Denver Spike. Come se il narratore diventasse in tutto e per tutto la figura del personaggio, in tutti i suoi aspetti psicologici e linguistici del periodo in cui si snoda la storia. Credo che sia la prima volta che opto per una certa aderenza del tempo cronologico adeguata anche al livello del linguaggio, come aspetto integrante della dimensione psicologica raccontata e anche per livellarla con quelle con le quali si relaziona. Avrei potuto narrare la storia del ragazzo con la voce presente e più distante del ragazzo ormai uomo, che ricorda, da uomo,  il tempo e l'accadimento del ragazzo, ma con il linguaggio maturo.
È stata una scelta che mi ha interessato, anche perché mi ha consentito di liberare le immagini pure della narrazione, riducendo al minimo le interferenze di un linguaggio troppo aticolato o compiaciuto della sua forma, che a volte può pesare o comunque distogliere, se non addirittura sostituirsi al fatto da raccontare.
Ecco perché mi piace parlare di racconto-studio.

mercoledì 22 febbraio 2012

L'azzurro della notte: la prefazione di Manuela Giacchetta

Manuela Giacchetta, in questa sua prefazione al mio romanzo "L'azzurro della notte", di prossima pubblicazione (Edizioni Il Pavone di Messina), dimostra di essere entrata nella storia come una fiocina agile e silenziosa nei riflessi di un colore, e ci è riuscita benissimo. Più la rileggo e più la ritrovo una prefazione originale, limpida ed emozionante.
Sono davvero onorato che questo romanzo sia stato introdotto da una scrittrice dal talento così chiaro e riconoscibile. Non finirò mai di ringraziarla.
A voi:

PREFAZIONE al romanzo "L'azzurro della notte".

Ho sempre immaginato di assaggiare i colori. Di trovare il gusto esatto per ognuno. Nel corso del tempo ho scoperto, per esempio, che il rosa ha il sapore di mandorla e non è poi così zuccherino come può sembrare. Che il bianco sa di orzata. Il celeste d'anice. Il giallo, che ho sempre sospettato aspro come il più bisbetico dei limoni, in questo libro si è invece rivelato di un'intensa dolcezza. E non l'avrei mai detto. Il verde, invece, non è mai stato capace di sorprendermi, e ha il sapore della menta fredda. Il nero è totalitario, sbalorditivo, ai limiti dello stucchevole.
Poi c'è l'azzurro. E l'azzurro è una faccenda complessa.
Questo libro cerca di rispondermi. Perché è invaso da un azzurro che dilaga, contagia la storia, l'autore. E' un colore in divenire, senza un'identità precisa, che si muove nell'indeterminatezza, alla ricerca di se stesso. Un colore di cui ci si potrebbe ammalare. E' un quasi-blu, un quasi-notte, un quasi-altro, sempre a un passo dal suo definirsi.
E' così, il tipo di azzurro che si sfiora in queste pagine. Un colore di passaggio: fra luce e ombra, reale e irreale, scritto e vissuto, favola e incubo. Una frequenza cromatica che diventa il tramite fra dimensioni altrimenti separate, lo sfondo perfetto per farle compenetrare e confondere.
L'azzurro di Luigi Salerno è uno strappo, un punto di rottura. Ma soprattutto un punto di accesso alla storia di queste pagine:
Ma tutte le storie, anche se già scritte, trascritte e quasi concluse, hanno sempre un punto oscuro di accesso. Una zona profonda e inscrutabile, difficile da penetrare.
Attraverso questo tipo di azzurro si scivola nella storia, senza possibilità di appiglio o di orientamento. Dove una fiaba può diventare terribile, dove la musica assiste, nascosta nella scelta dei termini e delle immagini:
quelle/sue/gambe/sulla/pista,/come/le/dita/di/un/violi/nista/folle/sulle/corde
dove la poesia si spaventa, ma resiste, per raccontare quello che accade tra uno scrittore che ha finito le sue parole, una pattinatrice dalla pelle bianca, bianchissima, come ceramica di Capodimonte e il suo cane, quasi umano, che per primo si smarrisce nell'azzurro e li fa incontrare.
E' un colore che deve accogliere e nascondere i molti contrasti emotivi che svuotano il respiro. Che deve intrecciare, in silenzio, l'armonia di un corpo di ragazza, quasi fatta di musica, alle crudeltà giustificate, e agli amori uccisi per amore.
Non si ha mai la sensazione di leggere, ma quella di ascoltare e di vedere il mondo, come da sotto i fondali di un lago. A volte le immagini arrivano come echi, altre come sfumature d'acqua.
... grandi lampadari spenti e antichi. I soffitti alti e una tenda impazzita, che sfiorava di bianco i vetri della cristalliera.
E' l'immagine perfetta per arredare questo fondale, dove la storia si propaga, come un suono umido.
Non credo sia possibile immaginare un sapore per questo tipo di azzurro, perché, alla fine di tutto, sfugge all'idea di colore, diventa uno stato emotivo. Potrebbe avere, forse, giusto il sapore di un sogno marino.

Manuela Giacchetta



lunedì 20 febbraio 2012

Parlano i libri a metà della notte...


Ho fissato e rielaborato questa scorsa particolarmente felice dalla prima parte del romanzo Il tuo volto domani- Febbre e lancia di Javier Marías (Tu rostro mañana- I. Fiebre y lanza), perché mi ha comunicato una sensazione molto forte di appartenenza a un certo flusso. La bellezza del leggere rimane come esperienza infinita di un ascolto di flussi, atmosfere di momenti rari, inscrutabili, come il corso di un lungo fiume notturno che ti avvolge prima del sonno.
Ecco come viene sciolto il pensiero, che con gioia e fame condivido:

Parlano i libri a metà della notte come parla il fiume, con placidità o svogliatezza, o la svogliatezza la si aggiunge con la propria fatica e il proprio sonnambulismo e i propri sogni, per quanto si sia o si pensi di essere molto svegli. Si collabora poco, o si crede questo, si ha la sensazione che ci si stia informando quasi senza sforzo e senza farci molto caso, le parole scivolano lievemente o flebilmente, senza l'ostacolo della lettura vigile, dell'impeto, si assorbono passivamente o come un regalo, e sembrano qualcosa che non si calcola né costa né trae profitti, anche il loro suono è tranquillo o paziente o languido....

Mi fermo qui. 
Questo passaggio di Marías racchiude un senso universale e privato di contatto e di abbandono a una bellezza, quella del leggere di notte o in una propria simbolica notte; alle sue possibilità e alle sue schiuse. Nella lettura si diventa parti indicibili di una sola voce, depositari di un segreto, di un contatto, di un sogno.
Credo che sia anche così.

sabato 18 febbraio 2012

Due compleanni. La scrittura e l'innocenza

Il racconto "Due compleanni" nasce e si delinea in un solo getto, una sera, diversi mesi fa, forse anche un anno. Rimane per diverso tempo accantonato, con le dovute correzioni di primo soccorso riservate ai testi nuovi.
Quindi la lunga stasi del buio, l'abbandono.
Il buio per un qualsiasi testo è un momento prezioso di incubazione. Momento oscuro di una nuova maternità, ancora più prezioso quando vi subentra la dimenticanza.
Scrivere dimenticandosi e dimenticando lo scrivere. Credo che sia uno degli atteggiamenti più nutrienti e utili per privare del peso e di una luce artefatta e sbagliata i propri lavori o tentativi di scrittura. La restituizione al deposito del loro nulla.
"Due compleanni", così come lo sento adesso che ho appena chiuso e definito il suo assetto, è un racconto figlio di una dimenticanza che però lo ha tenuto sospeso come centro, attraverso una maturazione silente e parallela del mio sguardo, dei miei tempi e dei miei ricordi. Riaprire quel testo dopo tempo, credendo quasi di trovarvi dell'altro o comunque niente di quello che invece vi ho ritrovato, costituisce sempre una fase preziosa di verifica e di sorpresa. La storia è stata riletta con un occhio nuovo ed è ritornata nuova, come se iscritta, dalla mia rilettura, in una nuova misteriosa maternità acquisita e riattaccata con lentezza al suo stesso seno. Così come è stato interessante riscoprirvi tutti i punti che avevo fissato e prefissato, ma con la duttilità di poterli mutare o di riuscirli a modulare alle nuove atmosfere di un nuovo tempo sensibile e incatenarli in una strana gioventù di traslucenza:
prima di attaccare questo post ho aperto la finestra e ho sentito l'aria. Fuori c'erano poche luci, qualche bagliore di neon, il cielo alto e molto nero. Ancora il freddo e molto silenzio. In questo clima è nato "Due compleanni". Con il viso dentro una notte da una finestra di casa, quasi senza sguardo, senza ricercare stili, tecniche, effetti, tendenze, sapienze, ridondanze, stratagemmi, ma affidandomi all'innocenza dello scrivere, che sarà quella che leggendo la storia nel profondo, qualcuno o forse più di qualcuno raccoglierà o appena sfiorerà nel suo tema portante o anche nei suoi possibili affluenti.
È forse per la prima volta che mi sono avvicinato alla costruzione di un testo che racconta dell'innocenza, con un'apertura e una fiducia incondizionata al mio istinto e non alla mia logica d'istinto, sono due cose molto diverse e lontane. Non era più un tipo di fiducia sulla sicurezza tecnica impugnata e acquisita, ma un totale disinteresse a considerare un solo istante di vita che non appartenesse ai temi, ai ritorni e alle dinamiche naturali del racconto, qualsiasi potesse essere il risultato. Scrivere con la sicurezza di uno stadio o di un luogo certo di partenza, è l'errore più grande. Credo che ogni scritto presupponga l'abbandono a un nuovo tipo di ignoto, dove tutto quello che valeva un attimo prima di cominciare, potrebbe non valere più per la richiesta interna di quel contesto. La scrittura è prima di tutto disordine vivo, da cui spesso è difficile districarsi. Il mio compito è quello di mettere ordine senza schemi, ma con un tipo di logica che parta e si armonizzi da quello stesso tipo e archetipo di confusione e disordine, e non da un costrutto preorganizzato e preordinato a cui uniformarsi. Sarebbe troppo facile e anche comodo. Si sfornerebbero racconti come canzoni, sulle stesse progressioni armoniche, con piccole variazioni, preziosismi, piccoli cambi di melodia e un nuovo testo.
Non esisteva nemmeno l'idea di un risultato o  del tentativo di ricavarne uno: alcune storie non hanno numeriche o confronti o riscontri. Non hanno soluzioni ma domande che si aprono ad altre domande o finestre aperte da spalancare, senza aspettare o pretendere altre risposte e certezze. Uno scrittore non può scrivere mendicando. Se scrive mendicando, allora nasconde una colpa o una mancanza. Può sembrare contraddittorio, ma la certezza e la sicurezza di una serie di dati acquisiti da elaborare e da sviluppare nelle prime fasi di un lavoro, mendicherà riscontri, attenzioni, aderenze agli standard e all'accondiscendenza. Non certo intimità di abbandono, che in questo caso è stato l'unico elemento certo che avevo.
Raccontare con innocenza e con intimità di abbandono, significa affidarsi al profumo e alla sensazione che mi ha portato ad aprire la finestra su quella particolare notte in formazione o in embrione, senza sapere nemmeno che cosa c'era da guardare. Non volava un'anima, ma c'era molto buio. Lo stesso buio fitto di una storia quando si è appena iniziata; è forse la fase più delicata, quella nebbiosa, ma è anche quella dove lo scrittore deve affidarsi, senza calcolare la prossimità di un confine o di un riferimento certo di approdo. Dovrebbe fare di quella perdita momentanea o forse prolungata, la sua piattaforma; in fondo è tutto quello che ha in quel momento, il resto non esiste e non c'è mai stato. È dentro quel tipo di fiducia istntiva che si snoda la tempera nell'acqua e si formerà un suo proprio colore.
Non credo che questo racconto abbia ripercorso dei moduli già noti o consueti alle mie abitudini o attitudini. È stato organizzato intorno a un fuso elementare, quasi una pagina di quaderno, ma di un' asciuttezza quasi epistolare, di chi prepara una missiva che non vorrebbe far partire o che non avrebbe nemmeno aver scritto, ma che in qualche modo gli scivola dalle dita e si continua da sola.
La mia impressione è stata quella di muovere il punto di vista nei tempi narrativi di un ragazzo, o di come mi sarei posto di fronte a questo racconto se mi fosse balzato nel cuore al primo anno di ginnasio – e forse è proprio quel mondo che ritorna e che rievoco. Questo tipo di semplicità, è quella su cui ho lavorato nella fase ulteriore di sviluppo, cercando di legarla in un costante diminuendo e mai in crescendo, e senza scostarmi da un tono confidente e molto fragile quanto poco appariscente di narrazione, accettando tutti i rischi che questo tipo di approccio comporta, ma non avevo scelta. Una storia funziona quando la scrivi senza nessuna possibilità di scelta. È solo quando non posso più scegliere che comincia la mia libertà.
Questa storia si mantiene viva sul suo leggero sottovoce, senza richiedere o mendicare attenzione. Ha una sua vita anteriore. Le luci del racconto si accendono senza saperlo, così quelle dei personaggi, che non ho sentito raccontati ma ravvivati da una circostanza che li tiene vivi o li rianima alle mie spalle, e quasi indipendenti dalla mia funzione creativa. Questi personaggi si organizzano intorno a una strana forza attrativa, che li rende così vivi da sembrare preesistenti e insieme prescienti della storia stessa. Sono insieme presagio, passaggio e momento passato, come se afferrati in una loro esistenza pregressa ma continuata, e non ottenuti da un vuoto, ma incrociati in una curva. Il concetto, o sensazione da cui nasce questo pensiero, non è così semplice da spiegare. Posso ridurre il tutto a un'idea di credibilità: dimenticanza nel non sapere se quello che scrivo sia o non sia vero, non stia accadendo o sia già accaduto anche senza il mio medium.
Una delle lezioni che mi ha dato questa storia: non deve esistere la paura del giudizio, dell'errore, ma nemmeno la speranza della riuscita e nemmeno l'ossessione del giusto o del perfetto, ma l'intimità di un abbandono. Quando scrivo sono solo al mondo, e non ho più certezze di conoscenze o di riconoscimenti di chi non scrive o di chi non ha mai scritto un rigo in tutta la sua vita. Non sono altro e non sono nessuno se non parte di quel firmamento di segni in formazione, ancora senza suono e colore. Un evento narrativo ha dentro il suo mare grosso, che non conosce al momento altra regola se non la sua forza e la sensazione di un suo orgasmico "tremendo" che scalpita ma che sa senza dire. La creazione è un arrembaggio nelle distese della mia ignoranza, della mia vita oltre le parole che ho capito e che ho imparato. È un momento primitivo che non deve accontentare nessuno al di fuori di se stesso. È solo in questa sottile accondiscendenza e intimità con la formazione psichica di quello che sta accadendo, che riesco poi a organizzare un tessuto. Mai da quello che conviene tessere.
Non ho consentito a nessun attimo di suggerirmi "come sarebbe giusto o sarebbe meglio se...a chi piacerebbe, che cosa piacerebbe, come funzionerebbe, come converrebbe fare, disfare, non fare", ma ho perseverato con fiducia nel buio più totale, forse perché avevo percepito l'arrivo di quel momento, senza nessuna logica economica ma con il solo desiderio di bagnarmene. La mia formazione e la mia esperienza, dovranno lavorare solo alle mie spalle e a mia insaputa, e continuare ad esistere senza esserci, in alcuni casi senza neanche comparire o respirare. Dimenticati e mai finalizzati.
Adesso posso chiudere la finestra.

giovedì 16 febbraio 2012

Riflessioni sul raccontare

Non sempre conosco quello di cui racconto. Sono consapevole della forma vaga di un desiderio di raccontare qualcosa a qualcuno, anche di non avvenuto (e non è detto che qualcosa di non avvenuto sia qualcosa di non vero), o di non ancora percepito, immaginato, sognato.
Lo spasmo di dare voce a un racconto, di solito, è più importante di quello che si narrerà; di che cosa si narrerà e del modo in cui si narrerà. Questo strano spasmo informe, poco definito,  sarà il cuore e la parte più preziosa di una storia, dai suoi primi battiti fino alla sua fine relativa, o conclusione. Il suo movente non sarà narrativo e letterario, spesso casuale, illogico, preconcettuale. Racconto di qualcosa che non conosco ma che mi condiziona e mi spinge a conoscermi attraverso. Combattere con i suoi fantasmi che diventano i miei, in questo impasto passivo e ispirato di dinamiche turbolente che cominceranno a muoversi e a smuoversi, fino a quando non nascerà un incipit che per qualche istante ripristinerà un senso relativo di pace o di silenzio. Ma da quest'incipit adesso ritornerò tra i vivi, con le limitazioni delle cose già vive e anche già viste e già dette.
Ecco dove volevo arrivare: quello che comincerò a raccontare, sarà davvero non raccontato, non ancora narrato, inventato o vissuto, da qualcun altro che lo ha scritto? Dico qualcun altro che lo ha scritto a mia insaputa, naturalmente. Non credo che nessuna opera di invenzione possa realizzarsi sulla falsariga di una già conosciuta come esistente. Diverso il fattore stilistico, quando accade di narrare nelle atmosfere o nei vezzi pregevoli degli scrittori più amati, e quindi letti, assorbiti, conosciuti e riconosciuti in ogni attimo della propria esperienza creativa, in alcuni casi il seme vivo di certo scrivere, perché innamorati di quello che si legge, quindi portati a testimoni più o meno volontari o involontari di quella bellezza (c'è ancora da vedere quanta volontà ci sia in una fase profonda di innamoramento di uno stile narrativo).
Lasciamo da parte lo stile, ma veniamo al frutto inconoscibile del racconto: potrebbe già esistere? Possibile che qualcun altro si sia già imbattuto nello stesso spettro, che lo abbia portato, anche su latitudini lontane, a ripercorrere lo stesso plot, lo stesso fatto, con lo stesso tipo di climax o quanto meno con assi portanti simili, se non incosciamente clonate? Questo è un dubbio che potrebbe interessare diversi scrittori. Essere vittime di un demone che si è sdoppiato e si è già esibito con altri copioni simili, rendendoci ultimi e poveri destinatari di un messaggio già masticato, rielaborato, vissuto da altri. Che cosa può scongiurarci e proteggerci dal fatto che la nostra stesura non sia già stata scritta?
In fondo, riflettevo, le storie del mondo, le possibilità dei loro intrecci, delle loro evoluzioni, delle loro trame, avranno pur la possibilità di un certo esaurimento; possibile, come nelle melodie o nei grandi temi, che si possa inciampare in un qualcosa che sia già stato impiantato. E allora? Se io sono smosso dalla smania di scrivere cose che forse già esisteranno, che senso avrà la mia smania di raccontarle?
Ma adesso mi chiedo: siamo davvero sicuri che una narrazione sia fatta solo di un punto A, che passi per alcuni altri tasselli, per arrivare a un punto B? Che cioè si tratti di interessare a un fatto, accaduto o di finzione, non conta,  sicuri che la narrazione si mantenga solo su quello che accade? E che uno scrittore debba cercare di essere quanto più sensibile e raffinato nel far brillare ogni lato e ogni ombra del fatto-accadimento? Io credo di no. Una storia non sarà bella solo per quello che accade, ma per quello che non accade e che solo chi la scrive lo sa. (Ritorno sempre al bellissimo convegno di A. Cistelecan, sulla poesia che non si può leggere). Questo che cosa significa? Che una stessa storia, di fatti simili e visibili, avrà, nelle mani e nella sensibilità di ciascuno scrittore, un suo cuore pulsante e diverso, quanto originale, fatto di tutto quello che non si vede ma che pur non vedendosi distingue chi ha taciuto da chi ha scritto o  anche da chi ha taciuto in modo diverso. Si può essere simili nel parlare di un fatto, ma originali nel tacerlo e nell'attraversarlo da un proprio silenzio intimo e inimitabile.
Come posso pensare che qualcosa di non scritto, nella mia narrazione, possa risparmiarmi dall'imputazione di aver plagiato, clonato, copiato, qualcosa di già scritto?
Perché quello che non ho scritto, compare e traspare, a volte alle mie spalle, nelle atmosfere e nelle ombre dei personaggi e dei luoghi interni, ma anche del riflesso dei luoghi esterni, attraverso la loro psicologia e il loro sguardo. Una stessa storia, avrà le innumerevoli varianti dei luoghi e delle pulsazioni dei personaggi, che avranno quel codice genetico e irripetibile, quanto nascosto, che solo lo scrittore in causa nasconderà ma mosterà, in un filo sottile che al di là della trama, accompagnerà chi legge in un percorso a ritroso con la sua potenziale spettrale riconoscibilità in quell'accaduto, con il proprio relativo silenzio di ascolto.
Saranno quindi le trame psicologiche, emotive, esistenziali, quelle che di solito non si raccontano con un fatto ma con un antefatto o antifatto e non fatto, a costituire il vero animo di una creazione originale, che a sua volta sarà inimitabile, in quella sua complessa orchestrazione di evocazioni, ma anche ristrutturabile all'infinito per chi abbia i propri strumenti indescrivibili e silenziosi con cui reinventarla.
È l'unica consolazione al fatto di poter ripetere fatti accaduti con altre ombre, e quindi diversi. Non ancora accaduti con quelle stesse mie, di questo invisibile momento.

sabato 11 febbraio 2012

Non esiste una sola regola.

Non credo che si possa parlare di regole dei dialoghi. I dialoghi possono funzionare in modalità diverse, anche su piani di impostazione del tutto lontani l'uno dall'altro.
Esistono dialoghi meravigliosi, ritmici e credibili, che si snodano su territori opposti e che raggiungono lo stesso il loro scopo di naturalezza e di fluidità.
Qualche esempio vivo.
Da una telefonata. Il testo è il primo volume di "Il tuo volto domani- Febbre e lancia" di Javier Marías.
Ecco come lo scrittore gestisce il discorso mono-diretto di un personaggio femminile al telefono:
"Ciao, magari avevi chiamato, mi dispiace, mia sorella mi ha tenuta un'ora al telefono per farle da psichiatra, va malissimo con il marito e adesso mi considera esperta. Pensa un po'. I bambini già dormono, mi dispiace davvero, li ho messi a letto all'ora solita, la verità è che non mi sono ricordata che era giovedì fino a questo momento, quando ho riagganciato, lo sai quello che succede quando uno vede chiaro ciò che non vede l'altro, lo ripete dieci volte e si esaspera, e anche mia sorella, che in realtà vuole sentire quel che si dice a se stessa e non quello che io posso capire, o consigliarle. Come stai?".
Dunque, fermiamoci un attimino. Quanti di voi, trovandosi tra le mani un dattiloscritto di uno scrittore esordiente o sconosciuto che imposta così una parte di telefonata o comunque buona parte del discorso diretto, storcerebbero il muso? A occhio e croce, tra le persone che ho avuto modo di conoscere in varie circostanze, sia in relazione a miei scritti o comunque su tematiche generiche di scrittura, circa l'ottanta per cento cestinerebbe il manoscritto. Eppure con quelle due paroline finali, messe in coda come fanalino "Come stai?", lo scrittore riesce ad armonizzare e a dare un equilibrio, un ritmo e un ordine naturale, a tutta la scapigliata sequenza precedente. Un tocco invisibile e magico, prezioso, secondo me.
Non farebbero lo stesso con Salinger. Un passo a caso da "Un giorno felice per i pescibanana"; uno come questo:
""Dov'è?"
"Sulla spiaggia".
"Sulla spiaggia? Da solo? E come si comporta sulla spiaggia?".
"Mamma", disse la ragazza, "parli di lui come se fosse pazzo furioso...
"Non ho mai detto questo, Muriel".
"Be', ma lo pensi. Poveretto, se ne sta lì sdraiato, buono buono. Non si toglie nemmeno l'accappatoio".
"Non si toglie l'accappatoio? E perché?".
"E chi lo sa? Sarà perché è così bianco".
Sono certo che una buona percentuale considererebbe questa sequenza molto più funzionale e vera, e continuerebbe a bearsi, a prendere appunti, a distillare col contagocce quelle poche parole così potenti che sono state sfruttate; a quanto siano belle quelle lunghe pezzature di bianco contro lo sciame sismico e viscoso di caratteri precedenti. È proprio così?
Adoro Salinger e credo che i suoi racconti siano incantevoli, ma non sono un modello assoluto di veridicità. Sono contestuali al suo impianto e al suo preciso equilibrio.
Arriviamo ancora all'osso, anche senza telefono. Un passo di Kristof da "La terza menzogna".
Mi domanda:
"Conosci la città?".
"Sì, perfettamente".
"E la frontiera?".
"Anche".
"I tuoi genitori?".
"Non ne ho".
"Sono morti?".
"Non lo so".
"Dove abiti?".
"A casa mia. Nella casa di Nonna che è morta".
"Con chi vivi?".
"Da solo".
"Dov'è la tua casa?".
Siamo al minimo indispensabile. Asciutto, secco, economico, preciso.
Ho citato tre modi di organizzare il discorso di tre scrittori giganteschi, piuttosto differenti l'uno dall'altro, in particolare rispetto al primo esempio. Nessuno ha più o meno ritmo dell'altro. La loro scelta è contestuale all'insieme dell'impianto, delle psicologie, dell'ambiente, delle esigenze narrative, dell'emozione, del cuore occulto di quello che succede. Non si possono smembrare e scorporare le  singole attitudini dall'intero organismo. Ho letto con attenzione tutti e tre i libri da cui ho estratto gli inserti, e credo che nessuno trasgredisca e nessuno rispetti un criterio assoluto.
I criteri assoluti non potranno nulla contro le esigenze drammatiche e contestuali di ogni singola creazione e sensibilità creativa.
Morale della favola?
... 

venerdì 10 febbraio 2012

La prosa di Agota Kristof. L'asciutto e il dettato indaco.

Avrei troppe cose da scrivere su questa prosa. Ne sono tante e preziose da non dirle.
Il bello di quando si ha da dire, è la possibilità di trattenersi il dicibile per altre occasioni, o comunque consentirsi il gioco dell'accenno. Sono emozioni e non solo pensieri. Quello che al momento so della sua prosa; giusto qualcosa:
asciutta, come un ginocchio rosa e sbucciato, appena lavato e riscaldato da una bocca aperta di una donna anziana o di un puma. Così ho avvertito la prosa di Kristof nella sua "Trilogia della città di K", misteriosa e incantevole sciarada, che parte come evento letterario per snodarsi come insetto della psiche, piaga e balsamo, paesaggio lunare e crematorio dell'esperienza e della memoria.
Il mondo del quaderno è la vita e il ritmo che sostiene sviluppo e avviluppo. Questo lavoro avviluppa, infatti, e non sviluppa. La cartoleria, le matite, gli odori della guerra e delle campagne aperte. La fame e la sete. Il sesso, il freddo, gli alberi e gli animali, o sono stelle del cielo o sprazzi dolci di letame appena rischiarati e composti da un fondo umido di pioggia.
Ma potrei ancora continuare e tradire l'impulso vitale di questo stile, che avvolge per ogni passo in avanti e affonda d'impeto, nei contrasti tra gli estremi, nella compiutezza delle armonie, nelle dissonanze.
Le figure della Trilogia si vedono, si odorano e si toccano. La Città di K. si abita e si vomita, con le sue radici, le sue tombe i suoi topi e i suoi fantasmi grigi d'insonnia.
Adesso ritorno nell'asciuttezza. La prosa di Kristof è impiccata sull'abisso di una sintesi magica, che rende difficile il solo pensiero di emularla o di definirla catalogabile. Non è scritta ma è grattata, come sollievo da un prurito del vivere, un fiammifero che schiocca sull'intonaco. È sospesa nel minimo che include la rara profondità del massimo. È dentro un mirino un attimo prima di uno sparo. Ogni sequenza un solco di frontiera con il mondo e con il filo di Lucas e di Claus.
Asciuttezza ma anche suggestione. Ho cominciato a leggere le prime pagine nella notte fonda di Domenica, con il freddo che batteva fuori e un piccolo lumino giallo che si faceva spazio tra le parole. I capitoli erano così brevi, essenziali e ipnotici, da non consentire la possibilità di una sosta, di una distrazione.  Erano delle figure vive che mi toccavano gli occhi e la faccia come dita e non come lettere.
La scrittura è una malattia. La grande scrittura è una forma di ossessione, uno spasmo, una ferita in suppurazione. Rimane nell'aria e nella mente, come un pensiero fisso, ma non solo la storia, ma il modo operativo di questo linguaggio scarno e meraviglioso, che sembra tracciato su ogni foglio come l'esercizio indimenticabile di un dettato in tinta indaco.

mercoledì 8 febbraio 2012

Il mio primo corto. Passi del linguaggio. Il mio buio

Ho lavorato con strano stupore all'evoluzione di una mia prima sceneggiatura originale, estratta da un mio racconto, dal quale però si è discostata con una certa ostinata determinazione.
Durante la stesura ho vissuto due fasi molto precise e credo anche molto formative.
La prima: il getto dell'idea è nato per caso, da una serie di circostanze che se dovessi concentrarmi per ricombinarle o ricostruirle, rischierei davvero di impazzire — parlo del getto della sceneggiatura e non del racconto originale. Dunque, pura casualità, ma una volta caduto nel forno è difficile che mi tiri indietro. Ho gettato le prime scene sul modello americano, pieno di tensione. Quando scrivo non sono mai troppo teso. A volte molto vivo, molto assonnato o stordito, molto innamorato o sprezzante delle mie parole, imbambolato, armato o disarmato, ma in un certo modo mi sento libero, pur nella varietà delle sensazioni. Invece fin dalla prima scena del corto, che tra l'altro stavo strutturando senza leggere nemmeno un rigo del racconto originale, ero un fascio  di nervi. Lo rivisitavo a sprazzi di memoria, come se dovessi alternare i bagliori della situazione passata e narrata, con i nuovi istanti creativi. Ho proseguito con una certa fermezza e concluso un buon numero di scene, anche piuttosto dettagliate e funzionali — questo, forse, a dispetto dei molti o forse dei pochi, che insistono col definire il mio linguaggio immaginifico. Insomma l'impianto dovrebbe esserci, mi dicevo, ma mi accorgevo che tutto poteva essere al proprio posto, tranne la storia e la tensione che mi si era accumulata nelle braccia, come se fossi reduce da una battuta di pesca a strascico. Queste poche scene mi avevano davvero spaccato le ossa; eppure la letteratura e la finzione che cosa avrebbero di diverso, mi chiedevo? La storia intanto non c'era. Sembrava esserci, forse rimembrata dal mio racconto, ma non aveva braccia o gambe per sostenersi, perdeva acqua o forse sangue.
Quindi il buio. Il mio buio, e giusto sul finale a lavoro finito. Non all'inzio.
Seconda fase:
Stampavo il manoscritto, che avevo già predisposto in due versioni, con qualche variante ma con lo stesso numero di scene; la differenza è che solo in uno dei due i dialoghi erano giusto al centro del foglio, mentre nell'altro seguivano la stesura naturale che utilizzo di solito per la short story. Ogni tanto lo rileggevo, controllavo le scene che sembravano più riuscite e più funzionali, cercavo di consolarmi, pensando che la storia in fondo aveva un suo buon suono, o forse era una mia sensazione, ma ritornava puntuale quella tensione di prima che mi stringeva e mi diceva di lasciare perdere. Avevo già mollato mentre lo decidevo.
Questo fino a ieri mattina, quando reimpostavo daccapo la scena numero 5. La reinventavo, senza alcun riferimento, da zero. E da quel momento la struttura era stravolta ma realizzata, almeno nel suo embrione. Dalla scena 5 ex novo, anche le successive hanno ritrovato il loro assetto, e adesso ancora le sto rifinendo, così come qualcuna delle precedenti, anche se le prime erano comunque le più forti e stabili. La storia esisteva! Adesso la vedevo, per ogni luce, per ogni ombra, per ogni suono. È stata la sensazione fulminea di un istante, quando forse ero quasi deciso a mollare il file o comunque a lasciarlo ammuffire in qualche cartella di revisioni, o meglio: testi nuovi, su cui lavorare quando avrei avuto più tempo. Invece quella scena mi ha tirato per un braccio e mi ha riportato a riva, o forse al largo, a volte è lo stesso.
Credo che quest'esperienza mi abbia riconnesso a una serie di dinamiche molto intime che riguardano la mia vita più che la mia scrittura, e mi abbia fatto scoprire, anche con una certa commozione, quanto vi sia di possibile e di sperimentabile in un'esperienza del genere, quando si ricerca qualcosa di perduto attraverso questa sfida sottile, questo continuo altalenarsi di tensioni, di ritorsioni ma anche di concessioni, come se accanto a me ci fosse una persona umana. Qualsiasi cosa si scriva, conta molto il contatto e la sintonia con il proprio territorio di espressività, e mai con quello, anche più giusto, di qualcun altro.
Amo questo piccolo lavoro sceneggiato di fresco, di un amore molto intimo e poco definibile, che raramente ho provato così forte. Qualsiasi sarà il suo valore o il suo destino, nessuna cosa al mondo potrà cancellare il batticuore di questa mia piccola avventura.
Un invito a chiunque ami la scrittura: lo faccia al buio e al proprio interno, senza moventi. Quello che potrebbe avvenire dopo o che non potrebbe avvenire, sarà solo il superfluo, il dimenticabile. Non certo il cuore di quello che gli è successo.
Questa mattina, per festeggiare, mi sono regalato uno splendido romanzo di Stefan Zweig: "Lettera di una sconosciuta".
Buona serata e buona scrittura.

River Corto: Concorso di Sceneggiatura per Cortometraggi




TALENTI IN CONCORSO

PER UN SOGNO LUNGO 6 MINUTI

domenica 5 febbraio 2012

Decaloghi di scrittura e materie affini:

Non sono mai stato troppo curioso degli elenchi alle lavagne. Delle righe bianche e un po' tremolanti che dividono i buoni dai cattivi, il bene dal male. Non ricordo se in classe mi sia mai stato affidato un compito così ingrato, di separare i buoni dai cattivi, per il raggio di una manciata di minuti entrare nel cuore dei miei compagni e farne un calco di amianto sulla tenebra. Non ricordo, ma nel caso mi fosse capitato di dover eseguire questo compito, avrei scritto nomi a caso, di persone del palazzo dei nonni, o già morte o mai esistite o conosciute. Di banditi dei romanzi e gnomi dei boschi o topi di fogne a cavallo di fagiani rosa e bianchi in fuga d'amore, ma di nessuno dei miei compagni. Chi ero davvero per giudicarli?
Tornando a noi: le regole e i decaloghi di scrittura. Vi sono ancora persone a cui luccicano gli occhi a sapere dove cominci il giusto e dove invece il sbagliato, la passione per gli elenchi numerati e comandati. Che aspettano la regola dallo scrittore di turno e spesso parlano con la sua voce, con il suo timbro, citando i numeri di quel comando stabilito e che non fanno un passo che non sia autorizzato da una regola. Tutti i decaloghi di questo mondo saranno sempre incompleti e imprecisi. Avranno sempre un buco nei pantaloni, in qualche loro fondo nascosto, ma non per un loro difetto o una loro tara strutturale,  ma per il tipo di atteggiamento diffuso con cui si ingurgitano.
Se avessi dovuto imparare a memoria le regole fondamentali degli autori di alcuni decaloghi (che sono spesso anche i loro diretti trasgressori) e scrivere applicandole,  cercando al massimo di non discostarmene, mi sarei ficcato una doppietta in bocca dal secondo paragrafo. Sarei curioso di sapere quali sono i decaloghi ereditati per poterne stilare uno che sia universale, perfetto e necessario per tutti. Immagino così compositori di musica che nel ventunesimo secolo scrivono evitando come merde le quinte e le ottave giuste, e così pittori che regolano la luce nella stanza, poeti che misurano i versi come sarti d'epoca, registi con il monocolo dorato e via dicendo, senza dire più quello che pensano o che sentono, ma il punto esatto di quel certo decalogo, nel quale assediano qualsiasi persona che non vede le cose come loro – non capisco come diavolo sia possibile scrivere allo stesso modo giusto di un altro, se io sono sempre più convinto che ciascuno di noi vede, sente e odora, immagini, suoni e profumi diversi, anche in uno stesso luogo. Mistero.
Personalmente mi auguro di sbagliare sempre di più, ma con un errore che scotti e bruci gli occhi e le dita. Un errore di una tale oscenità che scomponga le acconciature, e costringa le signore a mantenersi ben ferme le vesti, perché la mia oscena dissonanza potrebbe scoprirle le cosce così come le cicatrici del cilicio o degli azzurri forni pubici e metalunari. Preferisco scrivere nella bocca di un orco o aprirmi un piccolo tavolo pieghevole nell'inguine di una strega, ma farlo con il mio modo, con il mio mood. E alla fine rimanere più indietro, ma più vivo, senza citare gli avanzi di un genio, ma la ricchezza di un momento indimenticabile della mia vita che ho davvero amato e che mi ha divorato nel profondo per poterlo poi narrare nella sua intonsa genialità naturale. 
Ecco perché credo che qualsiasi decalogo vada forse anche letto, certamente, ma non adorato. Non sarà più proficuo di una chiacchierata con un vecchio analfabeta, che ha scoperto da poco la poesia di Günter Kunert o di Philip Larkin, di cui riuscirebbbe a parlare per ore, senza smettere:
" Così ogni viaggio che faccio
mi porta, come portava lui in quella storia,
a nuove imboscate, a qualche nuovo errore:".
Che cosa c'è di più bello e di più poetico  dell'azzardo pieno di un'imboscata nelle braccia di se stessi?
Il rock'n' roll!

sabato 4 febbraio 2012

Ricordo di due sposi a Gaeta: (bozza)

Ricordo di due sposi a Gaeta
scesi dall'auto bassa e spaventati,
forse perché si erano spersi.
Da una macchina rossa
e molto bassa il loro pallore,
mi distese al sole bianco dei visi
contro la palpebra della marina
che si allertava della serata,
quanto la calma sulla lampara.
Qualcuno poi li salutava,
dei pochi ancora rimasti;
il velo la bendava di vento
e di una solennità d'eclisse
che la palpava nell'intanto.
I gabbiani fissati come croci
dentro l'aia lacustre e famosa,
spettri torvi di lunga tenebra;
mischiata al fumo  dei baci
la musica lunare delle navi.

venerdì 3 febbraio 2012

I sintomi di un rapimento: Lettera di una sconosciuta

Un romanzo, quando è grande per la sua intensità, quando si nutre di una storia particolare, diventa parte dell'aria di chi lo ha letto e credo anche di chi non l'ha letto. Un romanzo rimarrà nell'aria e nel cuore per le sue luci e per i suoi suoni, quasi mai per la giustezza o per la perfezione delle sue parole. Così mi capita di scoprire uno scrittore da un regista: parlo di Stefan Zweig e il suo "Lettera di una sconosciuta", rielaborato in maniera mirabile da Max Ophüls. Da ieri sera, dopo aver visto il film tratto dal romanzo non ancora letto, rimango in uno stadio di abbandono, di rapimento e di sospensioni, che non mi lasciano ancora, e che mi tengono ancora ben stretto a tutto il patrimonio evocativo della storia, al magico della sua sospensione sognante e dolorosa, alle espressioni e ai respiri, alla complessità di una dimensione che ho avvertito subito intrinseca e così vicina alla mia sensibilità percettiva, a quella certa malinconia di vita che mi sento dentro, senza averlo deciso e nemmeno saputo.
La scelta di creare un film del genere da tale romanzo, mi porterà ad esplorare l'universo dello scrittore austriaco, partendo da quest'opera ma cercando di agganciare altri vagoni. Ho tracciato solo da questi sensori il mio gusto è quello che rappresentano i tasselli della mia formazione: dal rapimento. Ogni forma di riscatto una nuova clausura, con nuovi orizzonti, segreti. È davvero così complesso il mondo di chi legge la vita attraverso i libri e le loro inesauribili risonanze, che manterrà le stesse incognite di chi crea. A volte tra il leggere e lo scrivere, quando ci si pone nel giusto spirito, non avverto alcuna sostanziale differenza (è invece avvertibile in chi sia ossessionato solo dalla propria scrittura, senza interessarsi mai a quella degli altri, se non per criticarla e scoraggiarla).
L'espressione di qualsiasi forma d'arte, comincia a pesarsi nella parte della vita che non le appartiene. La sua vibrazione sarà la sua essenza nell'assenza, mai la sua grammatica o la sua anatomia nelle sue zone sezionabili e troppo chiare. Che si parli di un racconto, di un romanzo, di un'opera di cinema, di musica, di teatro, di poesia, credo che la risonanza sia l'unico fattore d'ingresso, che mi consentirà di entrare nell'alveo dei meriti, del gusto, della buona o cattiva tecnica, dei demeriti. Avrò spazio per ragionarci quando avrò sfamato il mio cuore e avrò tremato fino allo svenimento. Io la penso così. Non credo nel tiepido. Le strette di mano, le amicizie, le stesse pietanze, lasciano un pallore intorno che sa di digiuno. I libri devono assassinarmi, come è accaduto con questo film. Sono un luogo di pratica, di scambio, di luci basse e di vita. Non un reperto. Mi auguro non lo diventino mai, in nessun formato e in nessuna circostanza della mia vita.


giovedì 2 febbraio 2012

prova: Dal buio della finestra (Lauda per un figlio morto nel sonno)

(Lauda per un figlio morto nel sonno)

Dal buio della finestra: 
sarà la stanza dal soffitto rosso
dove a quell'ora vi tace, ancora desta,
ne guata i capelli corti, il curvo naso,
al mozzato di candela che ne resta,
l'orlo di luna al collo di camicia.

La donna ha dissolto lo sguardo
di latte e di anni nella canzone,
spalancato il fioco all'acciarino bardo*
del grande amare di gola mai sfinito:
alle giungle affossate dei baci
le mammelle di lana alla vestaglia,
traversate da un gatto lutto al nero
che cospirava col muso verso l'aria
la spinalba di un suo lento fischio,
se come l' ultimo treno le attardava
la resistenza a non leccargli il cuore.

Bardo*



Ricordando Wisława...

Forse chiamata per nome manterrà quella presenza di spirito e di sorriso, o anche di quel certo incanto, quando pare appena riemersa dallo stupore profondo di una fiaba, da una passeggiata ai laghi o su di una spiaggia lontana; in una delle tante foto che ho visto di lei e che mi ha subito rasserenato, per quella sua aria particolare, un'aria difficile da scrivere ma non da sentire quando si guarda e si legge.
Un solo verso, che avverto molto rappresentativo per ricordarla, anche se certi poeti non si ricordano e non si dimenticano, ma mutano e stanno, al di là del ricordo e della dimenticanza:

"Il calpestare l'eternità con la punta della scarpina dorata".
Wisława Szymborska da Impressioni teatrali (Vista con granello di sabbia. Adelphi)

Night Club

Scivolano tunnel di assoli
nel filo blu della pioggia,
le parole sono al fumo
delle ultime siringhe
nere del contrabbasso;
si allungavano maglie
nelle svastiche del flicorno
e alle grandi gambe
dai viziosi passi stanchi,
sfuse alle ultime ombre
dei cappotti (s)chiusi,
swingate di mal mattino
alla malattia del sogno, 
o sull'ingresso muco
della pomata lunare.

mercoledì 1 febbraio 2012

Perché postare alcune mie bozze prime o in itinere?

In itinere. Mi sento dentro questo laccio, che schiude ma non chiude e nemmeno conclude.
I pochi, i rari o i coraggiosi che mi seguono con una certa attenzione, avranno notato negli ultimi post, un affollarsi, forse anche disordinato, di materiale in versi, o quasi, più o meno finito, elaborato, rodato.
Mi sento di dare una spiegazione, forse anche a me stesso. Di solito le cose solo pensate non sono così vive quando vengono poi scritte, anche se una volta scritte perderanno quasi sempre il mordente e la vita del loro vago inespresso che attornia ogni parola fino al suo capolinea: eccola forse la ragione. Il mordente di provocare in testi senza luogo, lo sbaraglio puro di un lancio, senza una direzione troppo definita; un lancio notturno di surfcasting, con tutta la forza del braccio ma senza alcun tipo di esca, viva o artificiale; senza nemmeno la premura e la tutela che diversi sentono verso alcuni loro scritti preziosi, e che cercano di sacrificare al minimo in certi luoghi. Prezioso non sarà mai uno scritto, ma il momento vivo e fragile di un incontro vissuto e patito attraverso, al contrario di tante altre teorie e suggestioni matematiche in proposito. Perché credo ai contenuti e non più ai luoghi del contenente o contenitore. Non credo che tutto il mio scrivere debba rimanere al cospetto di volontà oscure, che in alcuni casi lo liquidano con qualche accenno vago, confuso, che dovrebbe poi riassumere tutto il detto o il non detto o farmi cambiare modo di camminare. Come dice Mario Vargas Llosa: "Nessuno può insegnare a un altro a creare, ma tutt'al più può insegnargli a leggere e a scrivere", in una delle frasi più profumate e stimolanti che abbia mai sentito e che cerco, nel mio minuscolo microcosmo espressivo, di mettere in pratica quando mi sento interpellato a dare un certo giudizio, o meglio: un certo occhiale sul fatto narrato.
Lanciare nel minuscolo vuoto di questo mio blog alcuni pezzi della mia vita in parole, potrebbe diventare un attacco deciso alla mia concezione e al mio feroce disadattamento al clima letterario che avverto e che mi sento intorno. A questo punto è molto più utile che i detriti delle mie bozze vadano nello stomaco di uno squalo bianco, che almeno  li incontri e li annusi, prima di distruggerli, anziché nel laboratorio di un ragioniere o di un medico legale della scrittura. Meglio rubati con destrezza e passione, che tollerati con il sonno addosso.
Per fortuna alcune mie bozze non sono ancora cadaveri, pur potendo riassumere i deficit di una personalità piuttosto inquieta che ricerca e che non ammicca, ma questo è un altro discorso, più ampio e anche più intimo. Diversi anni fa, chi scriveva, non aveva tutto lo spazio espressivo che ha oggi. Ogni cosa aveva un peso diverso. C'erano i tavolini, con i gruppi di amici appassionati, che discutevano di quello che andava discusso, a volte sporcando i fogli con un caffè o con il fondo di un bicchiere ghiacciato di aperitivo. Temo che oggi alcuni accessi importanti di comunicazione vengano invece utilizzati come ingressi secondari di servizio. Lo stesso blog, diventa spesso una bacheca di annunci per dirottare solo ai destini prossimi o agli approdi delle proprie pubblicazioni o relativi trionfi (mai i tonfi, però!), come all'assaggio del menu di casa, il tempo di qualche rigo e via. Invece, al momento, in questo momento in cui sto scrivendo, così come il successivo, sono e sarò tutto quello che ho, lo spazio preciso che mi concedo e che forse offendo ma difendo, e che è l'unico concreto ad esistere, al di là di quello che potrebbe o non potrebbe accadere con le mie parole in itinere, forse il nulla più assoluto (potrebbe essere una grande fortuna e opportunità lo scrivere davanti a un palazzo spento o a un cane addormentato). Uno spazio del genere non è secondario a nessun altro al mondo, nel momento in cui lo vivo e lo avverto, come unico e insostituibile strumento baluardo di espressione.
Fin quando un mio testo non avrà un luogo in cui si sentirà condiviso e non inviso nel maglio di una sentenza – continuo a pensare che molte volte quando si scrive, ti si guarda sempre un po' come a uno che ha appena preso una merda in pieno e sta entrando nel salone di un palazzo ducale (si dice che porti fortuna prendere le merde in pieno, chissà...) preferisco l'azzardo del lancio nel vuoto. Intanto vivo la stanchezza con la passione di dedicare l'attenzione massima al luogo attuale e certo delle mie parole e non ai palazzi illusori e ducali dove andrebbero inserite.
Esiste una complessa attività telepatica che guida e che sintonizza lettori e scrittori e che li mischia in un unico terzo luogo. Non credo che sappia ancora altro in merito, tutto questo mi basta. Se avviene un contatto, sono disposto a discutere, variare, modificare, cassare, ricominciare. Se il contatto non avviene...allora rock ' n' roll! (questa l'ho arpionata da Ellis, ma credo che calzi a perfezione).
È per questo che in diversi casi mi sono concesso il gusto di lasciare prendere della buona aria ad alcuni miei scritti o bozze di scritti o quello che sia. Non credo vi sia luogo migliore e più appropriato per coglierli o distruggerli nella loro selvatica interezza itinerante o divertente inutilità.
Ecco la spiegazione che vi dovevo.

Luoghi e storie: (bozza in prova e in itinere)

La nottata che muguglia
tra i draghi rimbombi
l' ultima soglia del mese,
all'abbaglio del gelo
per poterne svenire.

(A una ragazza,
in quella stessa sera,
qualcuno ha spezzato
il braccio sinistro 
nel rombo di una chiavata;
si pensa, forse, perché:
vestiva troppo corto,
telefonava di nascosto.)

Adesso fisso le nevi
più alte dell'eremo
che mozzano le parole
degli occhi più aperti;
le bande dei platani
dalla villa del bisnonno Giovanni,
divorata dal tremendo degli anni.
L'ombra dei Camaldoli
svaporava pinne di fumi
da un abbaino di sereni.