Non credo che siano così grandi le differenze. Tra scrivere una canzone, un romanzo, dei versi, potare un melo, nuotare, passeggiare, guardare uno stormo, un tramonto, un temporale nero; c'è lo stesso confine tra il sentirsi in essere o in fare. Sentirmi in essere di quello che faccio, ha lo stesso sapore e sopore di una cosa non fatta ma vissuta, da vivere non perché si attivi da un braccio, ma perché si irradi.
Non credo che tra lo scrivere e il guardare dai vetri un temporale, si attivino queste grandi distanze. Se mi riconosco solo in quello che faccio, potrei romanzare nell'immobilità e comunicare al mondo il mio essere felice o già stanco, semplicemente vivendo quello che mi accade con lo sguardo. È la tensione di un risultato che ingabbia nel fare l'incanto di essere, comunque e nonostante, vivo e vivace, tra l'espresso e l'inespresso, senza addentare la mia realtà per collocarla di forza in una fornace, impastarla alla meglio e imboccare i passanti. Senza volontà creativa, senza la macchina della creazione, ma solo la sua pace notturna e invalicabile, che potrei esercitare di frodo, come una ragazza in ritardo un trucco a matita nelle lacrime, poco prima di uscire.
Non credo che lo scrivere, per concludere, faccia parte del mio fare. Vorrei disfarmi del braccio e del laccio che scrive e che fa, e che dice come sia meglio fare e che divide, che frappone e giudica e pregiudica, il ben fatto, il mal fatto o il mai fatto, per lasciare spazio all'attività opposta, quella che rimane in piedi e ostinata senza la tensione della verifica, del risultato, e che non risulterà mai per nessuno al mondo ma che avrà il suo peso. Un' azione di solo fare non potrà mai risultare come vorrei. Vorrei fare non facendo, o dimenticando di fare e poi disfarmi nel mio non fare, perdermici, come negli occhi di una strada amata, in una musica da film.
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