Ieri notte. Parlando con il freddo. In una zona molto interna di campagna, il freddo di ieri notte era parlante, perché improvviso, intenso. Sensazione oscura, perché anticipata da climi ancora stuzzicanti di una certa aria di aprile o della migliore sferzata settembrina ormai smagata. Parlando col freddo, ne gustavo il calco maestro, la pazienza di odorare il nero immenso dei campi, che abbracciavano la tenuta come braccia umane nei pullover.
Vivere con la fame del lupo e con questo odore di freddo e di simultanea ricerca di caldo, ma che non lo distrugga, ma che lo allontani, solo per poco, quel giusto, ma che mi dia sempre il tempo di osservarlo cantare da un luogo protetto, sul suo ramo bianco e folto, senza mai alzare un fucile, ma appena un bicchiere in segno di brindisi.
Mi accorgo sempre di più di vivere di sensazioni e di risonanze interne che prendono vigore e linguaggio da queste frizioni o funzioni immediate, quasi mai sincrone ma sempre armoniche, in un appuntamento privato con un mio luogo, e che dirigono dal corpo i miei pensieri e i miei esecutori, i miei antenati da portare in carrozza, a volte le mie scelte, le mie carezze, il mio appetito.
La mia vita avrà sempre qualcosa da dirmi. Nessun giorno o nessuna notte di freddo improvviso sarà mai uguale ad un'altra. Nessuna campagna notturna avrà gli stessi occhioni sporchi di pianto di un'altra. Nessun colore, nessun impasto di odori già sentiti potrà presentarsi mai noiosa o copia pirata di un'altra vita passata. Immagino di entrare nella sensazione, con il torpore di uno appena sveglio, con una faccia idiota, avvolto dall'odore di una tostatura violenta di chicchi, ma che non sia quella faccia pesante e assente di chi sta prendendo un colpo di sonno e getta la spugna, o di chi mi sta guardando mentre cerca qualcosa che ha perduto – vi è mai capitato di essere guardati negli occhi da qualcuno che si sta accorgendo di aver perso qualcosa? E che si tasta le tasche e intanto guarda, e in quello sguardo c'è un vuoto che ingoia te con l'oggetto perduto? Fateci caso, e sono convinto che mi darete ragione. Il vuoto di quegli occhi è quello che annebbia il mondo, la sua bellezza, la sua intimità, la sua profondità di carburazione continua verso il sogno...e verso la caparbia impossibilità di avverarselo.
Non voglio guardare la mia vita con gli occhi di chi lo fa per caso, mentre si sta scucendo una tasca a furia di cercare, ma voglio farlo con l'occhio di un bambino che riceve in regalo un animale vivo, che ha sempre desiderato e che adesso se lo vede sbattere davanti, come un cuore umano.
Non sarà mai disgiunto dalla scarpa del mio occhio che cammina e non guarda. L'occhio di uno scrittore deve camminare e non solo guardare, o sbirciare e smozzicare briciole di appena guardato e subito pensato, o ancora peggio: di visto da altri e pensato e raccontato come visto in proprio. Lo chiamo l'occhio di passaggio, di chi è lì per caso. L'occhio di un custode ubriaco e non di un Rottweiler, vigile e slanciato.
Leggo diversi scrittori, anche bravini, che hanno paura di guardare e di prendere una merda mentre l'occhio che scrive cammina e si avventura in luoghi meno sicuri e con meno luci dentro. È lì che si deve andare, dove l'occhio stanca e inciampa, e non dove si riposa. Dove incontri la storta ma non sarai mai lì di passaggio. Leggere di persone che sono di passaggio, e che non vedono o che non camminano con lo sguardo, abbrevia la vista e opacizza. Me ne accorgo dopo molte pagine, o dopo le prime, non conta. Ma l'occhio di chi scrive contamina quello di chi legge e diverse volte la luce dal balcone potrà risentirne, e così l'odore della cena pronta e quando un occhio che scrive è cieco, io non vedo e non sento più...Fa male.
È questa la differenza fondamentale. Non scrivere di un visto pensato, e quindi di un non visto e di un già visto, ma di un impatto diretto con l'avvenuto, con il calpestio e il passo dell'occhio nel freddo di quella notte, esempio ruvido, al quale adesso mi sono ricongiunto con una sterzata maldestra e sporchissima, che se adesso stessi guidando, sarebbe tradotta in una brutta inversione. Ma sono ancora vivo. Una questione di vita o di morte, per ogni parola. Con l'intensità di chi prova un grande spavento, una gran sete, una gran rabbia.
È l'unica speranza, è di non contare mai troppe certezze ammuffite o preconfezionate nel processo investigativo e sensibile che mi concedo, e che mi rende e protende pronto a un certo ascolto, di rimanere e di narrare o poetare, sempre all'ultimo banco, contro l'immenso che dirama fuoco e che mi spiega, con gli occhiali sul naso, un mondo incantato senza le parole.
Stasera l'aria è più dolce. Sono in città, alfabetizzato al buon tepore ritrovato, prima di spegnere, e sono felice perché vivo, e anche perché ne scrivo.
È già mezzanotte e chiudo.
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