Discreto tratto a piedi, grande fermento da centro storico, bancarelle, luci, mamme, figlie, mogli, sante, sorelle, ancora più su, mi inoltro, un mare di libri usati, non c'è tempo per Bataille, peccato, sarebbe molto interessante pure un testo di Soldati, un Giovanni Pascoli in offerta, ma è tardi, la funicolare dovrebbe funzionare, è da anni che non la prendo.
Tutto cambiato. Siamo in pochini, strano, con tutto quel baccano nessuno che sale in collina?
Tiro il fiato e alzo il bavero, un gesto antico che faccio spesso prima di scendere, quando sono davanti alle porte. Mi ci vorrebbe un quotidiano, un amico o un gelato. Sono da solo. Una volta oltre le porte automatiche in vetro, diretto ai vagoni, un suono di violino, molto caldo, si sente un braccio esperto, l'inizio di un canto natalizio, con diverse strappate e accordi, molto delicati. Lo suona un uomo dalla carnagione olivastra, straniero robusto, immagino dell'est, dall'aria mite e selvatica, asciutto e sicuro.
Lo lascerò continuare, io mi inoltro nel vagone successivo. Prendo posto, poche anime, proprio pochine, davvero come dicevo. Una volta partiti mi godrò l'esibizione muta del violinista come se occupasse un acquario dell'altro vagone, il primo. E io sono più su.
Il silenzio e i suoi movimenti decisi, risoluti. Dopo la prima fermata, l'uomo racimola, ringrazia e si accosta verso il nostro vagone, è quasi pronto per entrare quando un altro signore, molto più giovane ma credo anche meno sobrio, gli chiede il piacere di poter occupare lui lo spazio di quella corsa. Prego, prego, gli farà il violinista olivastro, e quello approfitta e rimane a pochi metri da me, barcollando.
Si riassesta, ha un giubbino verdastro con una lampo militare sulla spalla, che apre e che chiude, io subito penso: siringa o coltello, coltello o siringa, questo adesso si inventa qualcosa di nefasto, altro che canti di Natale col violino, e invece il tipo estrae da un'altra tasca, lasciando stare la spalla, un flauto dolce bianco, di quelli che usano, o che forse usavano, i ragazzini alle scuole medie, alle orecchie ha già delle cuffiette, evidentemente una base per poter nuotare meglio, qualche parola di presentazione, nell'odore furioso di alcol vecchio, ci dirà: lo so che siamo in tanti, ma vorrei che gradiste questa mia canzoncina, per qualche spicciolo, basta un pensiero, e solo allora chiude gli occhi e porta il flauto alle labbra. La funicolare riprende la sua corsa, lui indisturbato comincia, supportato dal suo misterioso sottofondo invisibile. Ad occhi chiusi.
I miei occhi adesso sono sospesi. Fissano il flauto e i suoi occhi chiusi. Non sarà così bravo e rampante, come l'altro violinista, tra l'altro anche così galante nei suoi confronti. Le notine diafane vacillano nelle luci della galleria, il tratto è in salita, ma la sua canzoncina mi prende il cuore. Mi dimentico di quello che potrebbe essere giusto, delle priorità, di tutte le giustificazioni che mi riecheggiano quando qualcuno mi chiede aiuto: questo è uno che si fa, ma guardalo, se non si regge nemmeno in piedi, allora se hai bisogno davvero di mangiare, te lo prendo io un panino, vediamo se ti sta bene, guarda che non mi freghi, un calcio in culo, guagliò, ce rutt 'o cazz! Sei pieno di cani e non hai una lira, 'sta samenta! sai quanti ne ho visti come te, (il passaggio al tu è d'obbligo, insieme al tono sprezzante, inquisitorio di chi deve negare la carità col ruggito: io non ce li ho, però ho un bel calcio nero, nel tuo bel culo, allora? Ti levi davanti ai coglioni, per favore?).
E invece quel tipo magro e ispirato, mi regalava una canzoncina, che forse nella mia vita non avrei mai più sentito, o chissà se era davvero una canzone, la sua imprecisione poteva far pensare a una successione casuale di gradi congiunti, avvolti nel fumo di una lunga nostalgia, un canto della sua terra, fischiato da qualcuno a cui voleva del bene, una ragazza con gli occhi chiari o i capelli sciolti, che gliel'avrà fischiata nelle lacrime, poco prima della sua partenza, di svenire per nulla o di venire tremando di febbre dentro un amplesso.
Era tutto così diverso, i suoi occhi chiusi mi facevano il verso, ma poi chi diavolo sono io di fronte a te? E le mie canzoncine, quelle della mia vita, da suonare a occhi chiusi, adesso dove saranno finite, quando le mie dita raggiungono gli spiccioli nudi e freddini nella tasca del giaccone. Sarà uno sfioramento leggero, aprirà gli occhi insieme all'apertura delle porte e sfiorerò il suo palmo freddo prima di svanire
Ci penserò ancora, intanto la zona collinare è piena di una borghesia tirata a lucido, minigonne con gambe meticcie nere e perfette da cinema, che si ostinano a intrattenersi davanti a una vetrina e mi tagliano la strada, come coltelli, ma come farà quella canzoncina, persone che ridono, scherzano, e io ancora immaginavo quelle note lontane da mettermi in bocca e succhiarmi, guai a chi mi tocca, stasera con questa fretta, e chissà quei miei spiccioli se finiranno in un bicchiere o in una telefonata d' amore. O in un taglio di barbiere, in una prestazione sadoerotica violenta, in un cinema, in una pizza, in un pranzo, in un caffè ristretto, persi in una rissa o da un panettiere, in una vacanza o in un film dell'orrore.
Tutto confuso, nebbioso. Sono ritornato diverso, più serpeggiante ma generoso. Quanta fatica nel dare senza pensare. Se io chiedessi di regalare una canzoncina sarei felice? Chi mi canta più una canzoncina, non ricordo, forse molto tempo fa, ma non esiste più qualcuno che dice canzoncina, nemmeno i miei nipotini.
Per così poco, ma quanto fa male a volte il voler bene. Il voler solo bene, che è ancora diverso dal fare il bene.
Il bene si sviene non si vuole, dovrei volerti del bene sennò svengo o sennò svieni. Dovrebbe essere l'ossigeno, lo sguardo di ghiaccio sulla coscia accavallata, la granita di agosto, un bacio blu sotto un piovasco.
Ma sono a casa, ormai è tutto finito.
Ritorno meno stronzo e rinvigorito.
notte o buon appetito:
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