Credo che una spinta espressiva di un certo linguaggio, si mantenga e comunque ruoti intorno alle luci di una certa stagione. Nel mio caso il mio scrivere, o il mio tentativo di descrivere e trascrivere la mia scrittura, è molto autunnale, come forse sarà autunnale la mia parte che si trova a divincolarsi per parlare, spesso senza nemmeno saperlo o volerlo, in questa batracomiomachia incessante che si muove verso di me, tra i topi del mutismo e le rane delle parole.
Lo sguardo è autunnale, perché amo il mutamento, i sottovoce, le tinte morbide, le situazioni accennate, crepuscolari, in cedimento, mai troppo forzate, la leggerezza contro il peso: la leggerezza e il silenzio che possono farsi indimenticabili, contro il peso e il delitto persecutorio, che soffocano del loro vuoto e della loro assenza.
Come nel post di ieri, la pornografia che avverto e che mi circonda, impazza e matura di opulenza e di gioia, contro i dettagli impercettibili di un'identità di caviglie di ballerine classiche, nuche, chignon, clavicole magre e occhi chiusi davanti a fontane al sole, piccole ombre sui visi, primi baci dati solo con le braccia, i gomiti nudi a sfiorarsi sulla stessa ringhiera, è qui che si è sviluppata la mia fantasia, la mia piccola o potenziale espressività sognante e dolorosa: in un piccolo parco autunnale, verso sera, fatto di niente. Nemmeno la luna. E in questo niente, anche se così piccolo, ho imparato a perdermi e ad amarmi.
Un linguaggio non è una parte estranea alle luci di una vita e di una traiettoria. Se osservo un viale di sera, e scorgo delle figure vaghe che si allontanano, rimango rapito, molto di più che se scorgessi un elicottero a bassa quota, una macchina da corsa molto potente. Credo che una certa dimensione di poetica non sia mai una scelta volontaria, ma una conquista, anche in questo caso non volontaria. Una conquista di sensazioni e rifrazioni patite e avvertite, col tempo, indispensabili e vitali, pur nella loro assolutà fragilità, inconsistenza, impermanenza, ma che sono state anche protette, giorno dopo giorno, preservate e conservate come lettere o foto di defunti in scatole di biscotti di latta.
Mi accorgo, questo da tempo, che non vediamo, non sentiamo, non palpiamo le stesse cose. Di questo ne ho fatto un'esperienza diversi anni fa, quando ascoltavo i dischi di musica classica con qualche amico, e cercavo di fargli scoprire alcuni punti che mi avevano letteralmente stregato e reso impossibile distanziarmene.
Ricordo una notte, ero da solo in casa, credo di essere ritornato sul passaggio di una sinfonia di Brahms, credo fosse la Quarta, circa un duecento volte, se non di più. Ero disteso sul tappeto, al buio, le sole lucine dello stereo acceso, un mondo incantato e senza tempo e io che cercavo di scrutare dentro di me, che cosa accadeva in quel passaggio che mi avveva avvinghiato e sottomesso, come avrebbe fatto una leonessa col fianco di un'antilope.
Quel passaggio era davvero un delitto. Quel mio ascolto così attento mi immolava a un ruolo di vittima sacrificale da sgozzare nel cuore della notte, senza testimoni vivi. Mi squarciava, dovevo sentire tutta la parte dell'attesa e quando arrivava non ero mai sazio. Dovevo ritornare indietro, nel punto dove cominciava l'attesa, credo che fosse sempre la stessa sequenza, l'attesa mi premeva sul petto, poi mi avvicinava al climax, che quando arrivava io a volte interrompevo, nel suo meglio, per ritornare indietro, ancora una volta, dopo chissà quante, senza stancarmi mai. Credo di aver ascoltato quel punto molte più volte dei fonici che lo avevano registrato, forse anche più volte dello stesso direttore d'orchestra che lo aveva diretto in quella versione digitale. Una forma di ossessione, quella sonora che si è estesa a tante altre forme, quelle visive, per non parlare della letteratura, ma per me i linguaggi hanno una loro economia di fondo relativamente simile, le mie emozioni non distinguono dal tipo di fonte, ma dall'intensità e dalla violenza dell'attrito.
Essere abitati da una tale ricettività, espone quasi sempre a sofferenza. A un filo costante e sempreverde di dolore.
Tornando alla questione sul non vedere, sentire o palpare le stesse cose, ne ho avuto conferma proprio quando cercavo di comunicare in diverse circostanze, la bellezza e la profondità di un passaggio musicale a qualcuno che mi capitava a tiro. Io avevo inserito la traccia e intanto cercavo di descrivere a parole i suoni, quanto meno i contesti e le situazioni sonore in azione o appena prossime, tutto quello che sarebbe o che stava per avvenire, anche se in fondo non ce n'era bisogno, doveva attivarsi tutto da solo, così come era successo a me, e allora guardavo gli occhi di quella persona, quando io avevo già la febbre dentro, sperando che cogliessero anche loro, ma quelli si sforzavano o fingevano, ma rimanevano tiepidi, anche riconoscendo l'importanza e la bellezza di quel tale passaggio, non riuscivano a carburare, ad emozionarsi e a stregarsi. Mi è successo diverse volte, tutto quel fermento, quel magma informe e miracoloso, era già sfumato, e più qualcun altro non lo sentiva, più riprendeva ad ossessionarmi come le prime volte.
Non credo, quindi, che le cose siano uguali e le stesse, anche rivelandosi di grande valore, per ciascuno che le ascolta. Non esiste una regola di attrazione che possa far collimare dei punti o dei fulcri verso una sollecitazione comune o sincrona, o relativamente sincrona. Nel mio caso l'armonia è sempre stata tra me e il mio dolore di sentire. Io riesco a sentirmi vivo, a vibrare e ad emozionarmi, grazie a questo filo di dolore, che è parte e disegno del mio sguardo, ecco quindi lo scrivere e l'autunno.
Anche nell'esser felici, la sensazione appena dolorosa e autunnale affiora, con tutte le sue luci, le sue regole, i suoi crepuscoli lenti o tragici e improvvisi. E nelle descrizioni dei personaggi, quasi sempre vi è una pena sottile, una certa premura per quello stesso dolore che provo a dargli una certa linea o fisionomia. Non sono mai tutti uguali i personaggi, perché non è mai sempre uguale questo filo doloroso che li mantiene vivi e vitali e spesso felici, grazie a questa lieve bruma che li contiene e li disegna.
Credo che senza queste luci di autunno, questo mio sguardo appena nebbioso sulle cose e sulle figure, che vedo e che intravedo, non riuscirei mai a conoscere e a godere di un'estate. Di una vera e sola estate nella mia vita reale e di scrittura. Perché di quest'autunno sono fatte le mie orecchie, le mie mani, i miei polsi, i miei occhi, le mie dita, tutta la mia vita.
È strano ma è così:
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