domenica 23 dicembre 2012

Per vederla svanire

La sera, verso il tramonto, prendevo la sua piccola bicicletta, già il secondo anno senza le rotelle, la caricavo in macchina e lo portavo a percorrere tutto il lungomare di Tito Scipione, con il cielo che intanto si affossava in un rosa stanchissimo e le sue gambe felicissime lo allontanavano. 
Il figlio di mia sorella, lo stesso nome di mio padre, in quelle sere in via Scipione: per me era come riattraversare un senso filiale di protezione, una responsabilità verso il piccolo ciclista, che doveva bere l'aria e perdersi nei miei occhi attentissimi a non perderlo mai di vista. La stessa responsabilità che provavo verso mio padre, anche se vissuta da un'altra angolazione. Si è sempre responsabili degli altri, in qualsiasi tipo di rapporto o di relazione, io mi responsabilizzo e cerco di non fare del male, di proteggere, di accudire, di consentire, di lasciar respirare ma di non lasciar morire, perdere o scappare. 
Con mio nipote le regole erano poche ma importanti. Fermarsi alla fine del marciapiede, ma a quel punto lì ero sempre io ad accellerare il passo e a raggiungerlo. Far passare le persone che poteva incontrare lungo la sua traiettoria, quindi decellerare all'occorrenza, e quando arrivava alle rotonde libere, percorrerle in profondità, evitando di intralciare le persone che si intrattenevano in piedi o sedute. L'unica rotonda occupata era quella con i tavolini del ristorante, credo la prima che avremmo incontrato. Lì doveva stare attento a non trascinarsi la lavagnetta con il menù, come stava succedendo una delle prime sere, o la borsa di qualche cliente poggiata sulla spalliera di una sedia. Per il resto era libero di bersi l'aria della sera, con il rosa stanco del cielo e io lo avrei lasciato ubriacarsi di tutto quel niente, che lungo il nostro ritorno sarebbe diventato notte.
Si parlava poco. I bambini non hanno troppo da dire o da ascoltare quando devono bersi un tramonto, un tramonto dentro una bocca, si avverte l'arancione e il rosa, con l'aria diversa, più o meno pungente, rinfrescante, insulare, dolorosa e speziata. Ogni colore del cielo io sento altri odori. L'aria rosa è come di ovatta, anche il rosa ha un odore e il giorno che muore è l'unico punto dove mi sento vivo e penso alla mia vita che mi ritorna nella bocca e poi vi trabocca, osservando a distanza quel puntino chiarissimo che si affanna di gioia, allo sfinimento.
Difficilmente parlo molto quando cammino. Gli altri mi parlano molto, in alcune circostanze, è anche piacevole, ma in certi casi esistono passeggiate silenziose dove si vivono discorsi profondi per il solo fatto di essere investiti dalle stesse luci, dagli stessi suoni, dagli stessi odori. Incontrare uno stesso viso, mentre cammini, che ci guarda quasi allo stesso modo, è parlare. Sono parole che rimarranno non dette, ma illuminando discorsi di cose provate insieme, ricordate con lo stesso testimone, correlato alla luce di quella piccola esperienza che non tornerà.
Camminando.
La tomba di Marco Tullio Cicerone è poco lontana, intrisa dagli odori del mare e delle campagne aperte, e quella bici continua, la catena ronza nella sua cadenzina d'inganno, come il cotone azzurro della sua piccola vacanza, e io attraverso quella scorsa immagino il passare del tempo, l'impossibilità di fermare quei momenti, di renderli immutabili e potabili, di scriverli o di distruggerli, di contenerli, di conservarli e di scioglierli: e che cosa ne sarà di questa striscia di terra quando la guarderò tra due giorni,  piccolino, e tu non ci sarai più e sarai già partito? 
Pensavo a quanto mi sarebbe mancato quel puntino caparbio e sfilante nella sera, che adesso cercavo di ingrandire con la falcata del mio passo appena più ampia. Quando il marciapiede finiva si fermava da solo e si girava per aspettarmi, come un adulto molto preciso e scrupoloso.
Lungo il ritorno, lo stesso percorso al contrario, senza quasi dirci.
La sua piccola nuca si faceva così lontana, e solo allora mi fermavo per vederla svanire: pensando e desiderando all'impazzata di non morire mai.

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