Per raggiungere la stanza dalla quale sto scrivendo, l'ultima della casa, devo attraversare una lingua buia di corridoio: adesso che sono entrato col caffè era tutto nero, da quando ero uscito nel pomeriggio.
In questo tratto si forma l'impulso che mi porta a cominciare e a non finire. Senza movente. Un colpo cieco e basso alla mia vita, che mi impedisce di fare altro. Il castigo quotidiano.
Lo scrivere e il dire: le mie parole sapranno se scritte o se dette? Il mio linguaggio non è lo stesso.
Quando stamattina parlavo, nel sole, a una famiglia di amici che ho incontrato, il mio linguaggio non era quello di ora, forse simili i miei pensieri, qualche vezzo, qualche sospensione, qualche tratto del quale non sarò consapevole, come la malinconia lagunare del mio sguardo abbastanza antico, che mi è rimasta dentro e che diversi notano ed è forse l'unica linea di me che imprimo e che con cui attraverso nel silenzio le mie parole scritte.
Quelle dette di solito hanno una destinazione, una certa economia immediata di realizzazione: stamattina sembri un attore di Hollywood, al mio amico che camminava con sua moglie e i due suoi bambini, e mentre quello rideva e mi ringraziava, dicevo a sua moglie, mia amica da tempi lontani – ricordo ancora che quando era molto piccola, senza volerlo, la terrorizzai con una maschera ridicola di vecchia, che i nonni mi avevano regalato per il Carnevale: un personaggio molto comico, secondo me, pieno di rughe, un naso a patata ma che poteva anche confondersi con un pugno chiuso dell'ultimo dei sette nani, Cucciolo, e la poverina, amica e quasi coetanea di mia sorella, quando uscivo fuori dalla mia stanza così mascherato, scoppiava in un pianto convulso, facendo accorrere subito mia madre e le altre donne di casa, credo che il problema fossero i capelli lunghi e molto bianchi della maschera, che le davano un'aria spettrale e minacciosa, che nascondeva il piccolo goffo naso e tutto il fattore più o meno grottesco del suo insieme – che doveva stare attenta, controllare il suo marito attore, tutto qui: e da quel momento, per uno scherzo, avevo seminato una certa allegria, con scaramucce di coppia, mentre i loro bambini mi facevano mille domande, e allora il padre doveva interromperli: lascia stare Luigi, non vedi che mi sta parlando? E allora, come dicevo, quelle poche parole, seminate nel sole del 26 Dicembre, erano forse anche un po' scritte, ma comunque correlate all'imbarazzo di non saper che dire con la maggior parte delle persone che vivo, che incontro e che sembrano sempre molto contente di avermi incontrato. A quel punto lì il mio linguaggio dovrebbe far così: signori, siete davvero molto amabili, adesso io avrei anche del tempo per intrattenermi insieme a voi, ma sono completamente a secco di parole, di cose sane e interessanti da dire, che non siano battute o piccoli vacillamenti in attesa di qualche vostro aggancio con cui sviluppare la frase di un discorso o di una sola battuta sensata.
Questo è relato al tipo di frequentazione, alla storia di quel rapporto, ma spesso le mie parole non distinguono con troppo acume il contesto e l'opportunità del dire, il tipo di economia o la libertà di poter disperdere pensieri in un mattino, come carezze sul collo dei piccioni o nei capelli folti dei bambini dei miei amici. Spesso dico cose senza senso, che attraggono molto e suscitano l'interesse, ma credo anche per come le dico. Per gli occhiali da sole e il naso che schiude dagli occhiali, o per come muovo la bocca, per quanto mi guardi intorno. Infatti è difficile che io riesca a intrattenermi con lo sguardo addosso a chi mi parla. Di solito sono attentissimo a guardare e a sezionare chi non mi guarda, ma quando sono osservato mi sento preda, sfuggo, sparo stronzate a caso e non so più che dire.
Il mio linguaggio, in quel caso, è quello di un naufrago alla deriva, pieno di tosse di alghe urticanti e di salsedine.
Vi sono casi in cui parlo scrivendo, ma saranno così rari da non accorgermene. Ascoltare la mia voce che dice, quando parlo, uccide tutto il mistero e il paradiso di ombre dal quale attingo per dire con parole scritte. La voce è come accendere la luce e impedire al coniglio e all'aquila reale, i miei animali meglio riusciti da bambino con le ombre cinesi, di raccontarmi un'avventura sognante e boschiva immaginandomi parte di un orecchio, di un'ala squarciata su di un picco assolato, di una loro corsa stramba nella notte.
Adesso ho concluso questo post e avverto di aver profuso del fumo, dei banchi di nebbia, ma senza aver raggiunto il nodo. Il punto centrale che mi ha fatto attraversare quel lembo nero di corridoio e raggiungere questa postazione. Solo per il dire a voce o con la scrittura, o tutto questo sarà un pretesto per attraversare la mia stanza con la luce ormai morta, e ritrovarla come non era?
Possibile, che queste parole siano solo un ricordo della luce del giorno, che è passata e un po' mi brucia?
Questo parlando a voce non sarebbe plausibile. Se trattassi una persona che incontro come ho trattato i lettori di questo blog, mi prenderebbero per matto, chiderebbero in giro cosa mi è successo.
Invece un post del genere, da scritto, mi lascia libero di essere, di vivere e di fare. È questo, forse è un grande regalo da conservare. Una fortuna, che darà un senso anche a uno scritto così desolante: senza movente.
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