Il pericolo in ogni forma di comunicazione, si annida nella qualità dell'attenzione ricevuta. Mai come in questa fase così complessa, di grandi fermenti, rivoluzioni digitali e di relazioni, conviene riflettere sul tipo di attenzione e di qualità dell'attenzione ricevuta, quando in un certo modo ci si espone.
Partendo dal presupposto che qualsiasi forma espressiva si ponga altro come meta, oltre al semplice richiamo numerico dell'attenzione, in senso lato, – come oggetto di un'aspettativa generica verso un tipo di ascolto, – va anche detto che senza la conferma di una certa attenzione, lo stimolo all'immaginario e diversi moventi creativi successivi o anche correlati, rischierebbero di sbandare o di disseccarsi, se non supportati da altri tipi di polmoni, che ne sostanzierebbero le dinamiche o gli spasmi. Va quindi dato per certo che la ricerca dell'attenzione, sia quasi basilare perché abbia senso una forma minima di comunicazione, perché la si organizzi in un certo modo e non più in un altro: per ottenere una certa corsia preferenziale e prioritaria. Ma quale tipo di attenzione? Quanto consapevole e davvero autentica?
Nel momento attuale, vi è la possibilità di potersi esporre, rispetto a prima, anche non molto tempo fa, con maggiori comodità, con tempi immediati, prediligendo spesso la reazione immediata alla propria formula espressiva, anziché i lunghi percorsi di gestazione e di attesa, che forme meno evolute di relazione e di comunicazione, costringevano, ahimè, a rispettare. Le dinamiche moderne di relazione, hanno sensibilizzato all'espressione e quindi al concetto democratico di espressività, persone che in altri contesti non avrebbero minimamente pensato di esporsi o di rischiare certi azzardi, dal momento che non vi erano i presupposti perché l'impulso espressivo potesse maturarsi e diventare un'urgenza – o a volte, ma non sempre, un'insolenza. D'altra parte non credo che esista una legge che vieti a qualcuno di esporre una propria idea del mondo, attraverso un canale che avverte più o meno consono alle proprie inclinazioni, che abbia a che fare più o meno con un processo o un percorso artistico, ma qui la faccenda si farebbe troppo complessa, non vorrei andare troppo al largo.
Il problema rimane ancora la fame di attenzione. Le lucine sul palco sono bene accese, lo spazio sembra necessario e sufficiente perché ci si metta in gioco e si investa una tessitura fitta di relazioni, come tramite se non esca di una certa espressività, sopita e forse latente da tempo, ma che aveva bisogno di maturare la certezza di una forma sicura e immediata di ascolto e di reazione e consenso tempistico, per potersi disincantare dal suo lungo sonno. Dunque, per non perdere il filo, se riesco a stringere una rete solida di relazioni, più o meno superficiali ma consistenti, dal punto di vista numerico, e ho qualcosa da dire e che mi preme dire, sarei a cavallo. In un contesto relazionale, giocando su diversi fattori, della mia persona, della mia attitudine a gestire e a maturare la pasta e la grana di questi intrecci, potrei giustificare qualsiasi cosa io proponga, anche se mediocre, o appena accennata, o sussurrata, per la sola fatica di aver suggellato un patto assistenziale di fiducia o di sangue, per qualsiasi cosa esca dalla mia bocca, dalle mie dita, dal mio pensiero, che sia la fiammata di un drago a tre teste, o un lied di Hugo Wolf. L'attenzione diventa numero. Il dito premuto che clicca e premia, è parte di un impero di numeri che premia l'arte e l'impegno della relazione e della dedizione alla tessitura relazionale, contro tutto il gravoso resto che dovrebbe officiare e rappresentare il contenuto e il contributo più profondo del proprio dire. La propria voce, il proprio cantus.
Quante volte avrò prestato attenzione e anche premiato, cose appena sfiorate, e di fronte alle quali avrò anche sorriso, ma che rimarranno violate da un mio passaggio d'ombra, che mi corporerà nella numerica globale, come adepto o prova singola di un'adesione a una forma d'arte, a una capacità che in fondo non è manifesta, e forse nemmeno ostentata, ma che nemmeno esiste. Quanto la bellezza dell'involucro, potrà continuare a proteggere e a celare, altre possibili e temibili mancanze? C'è davvero così tanto spazio per il vuoto? Ma soprattutto: c'è ancora chi incoraggia il vuoto?
Uno scrittore si accorgerà del tipo di attenzione numerica ricevuta? Quanto sarà legata a un ascolto, e quanto invece a uno spasmo o contrazione relazionale, che premierà il contenuto così come la simpatia, l'audacia, senza nemmeno capire di cosa si tratti o quanto davvero valga?
Ancora dell'altro. In una condivisione di passioni e di intenti, si tende a dare ascolto ed elogio a un potenziale ascoltatore-scrittore, anche se la sua voce non sarà così pregiata e di valore, ma sarà parte numerica o coefficiente della costruzione del mio impero. Anche se qualcosa non merita la mia attenzione, o meglio, non incontra il mio gusto, continuo a premiarla per ricevere in cambio la stessa stupida e sufficiente tolleranza, che nella cifra globale però avrebbe lo stesso peso di un'attenzione ispirata e di qualità. Il numero non arriva a spiegare la differenza, ma conta. È quello che deve fare il numero.
Alla fine rimaniamo sui numeri, sul loro infinito. Eppure questi numeri hanno la loro forza, hanno gli occhi chiari. Qualcuno premiato senza meriti, avrà il suo peso e penserà di essere stato premiato per altro, per il suo valore, anche se non avrà mai le prove del tipo di attenzione ricevuta, non potrà nemmeno trovare quelle prove contrarie, ma soprattutto non ne avrebbe il tempo. Una dedizione a un certo tipo di relazione, ha anche una sua valenza etica, che non si può negare, ma quando si parla di scrittura e di letteratura, le cose dovrebbero cambiare. Ma oggi c'è troppo fermento. Si confondono le chiavi. Adesso tutti vengono assemblati in un unico gregge, e gli autorizzati a dover decidere su questo o quel manoscritto, cercano di farsi grandi su come sia difficile scrivere bene, o anche solo scrivere – scrivere male è altrettanto faticoso, ma questo non lo dicono mai – e continuano a selezionare in nome di un assoluto che non esiste, corporato in una sequenza impalpabile di dogmi e di standard, che sfumeranno come soffioni, alla prima stoccata di ponentino.
La solitudine, signori, a volte è l'unica maestra. Credo che alla fine sia bello circondarsi di amici, riempirsi la vita e la casa di relazioni, di sorrisi, di emozioni, ma per carità, che tutto questo non sia un fine e uno strumento per il proprio momento di gloria o di attenzione. Un amico, anche un solo amico al mondo, credo che valga molto di più di qualsiasi sogno o demonico bisbliglio di gloria letteraria, possa un giorno turbare la nostra piccola pace.
Buonanotte: