Nella formazione di un racconto, breve o anche medio, mi accorgo che entrano in gioco degli elementi molto diversi rispetto alle distese più ampie di lavori più lunghi. Ieri mattina, concludendo un'ultima revisione per un lavoro da iscrivere a un concorso letterario, mi accorgevo proprio di questo, dell'importanza di particolari molto sottili, una sorta di processo nell'invisibilità delle cose da negare e da dire, dentro i fili nascosti nel tessuto e nei suoi contrasti nella pulsazione. Gli elementi diversi tra lavori lunghi e lavori brevi, spesso risultano dalla sensibilità dello scritto anche a una minima variazione, quel piccolo vacillamento, che avrebbe privato questa pulsazione di una sua linearità e intensità, spostando di molto quel certo assetto appena evocato in una costruzione narrativa in formazione. I particolari sottili e le inquadrature si muovono spesso in un'orbita microscopica, dove l'ingrandimento deve arrotondare e mietere quel senso di pienezza e di unità formale che costituisce poi l'idea del mio intero, del mio senso personale di integrità in quell'esperienza, intero che per ogni tipo di lavoro in cui mi imbatto avrà la sua unicità e le sue regole, spesso diverse l'una dall'altra a seconda del contesto, delle circostanze ma anche del mio mood con cui mi confronto per il tormento di una possibile perfezione.
I dubbi, nel decidere di ultimare e di ritenere il racconto centrato in quest'idea – nel senso di unicità che la sostiene – a volte molto personale di rotondità, di sfruttamento e compimento di tutti gli elementi e delle possibilità messe in gioco, sono sempre molto grandi e molto belli. I dubbi in molti casi sono la prima torcia verso il tragico, in altri anche una pericolosa colata di pece bollente sul proprio atto creativo. Dubitare durante il processo di revisione, anche in quello di scrittura – o forse di pre-scrittura, quando la parola è ancora parte di uno spasmo passivo e davvero misterioso in cui va a coniugarsi nella traiettoria di una sua prima luce – è un momento bello e insieme drammatico. Il dubbio è parte del brivido e anche dello scotto a cui uno scrittore deve sottostare ogni volta che rompe il silenzio. Come al giudizio, alle possibili ingiustizie, fallimenti con tutte quelle varianti o frustrazioni che daranno un altro senso a quell'esperienza creativa, una nuova risonanza, oltre a tutti gli altri momenti, significati e risonanze interne, che lo scrittore ha vissuto e che gli rimarranno e che lo arriccchiranno ugualmente, in alcuni casi anche con un racconto mediocre, che non con un racconto di qualità, anche questo può capitare. Cambiano, specie in una struttura come quella del racconto che ho appena ultimato, di un racconto di circa dieci cartelle, il rapporto tra le certezze e le incertezze, a volte a distanza di minuti, di ore, spesso di giorni o di attimi. Non ho quasi mai le stesse certezze, quasi mai gli stessi dubbi. Muta il contesto della certezza e quello dei dubbi: questo in una fase ancora di controllo del territorio, quando sono in grado di intervenire, e quindi non ho quella sensibilità che spicca invece quando non si ha più modo di avere il controllo diretto sullo spazio mutante del racconto. Sabato sera, fino a tardi, ho revisionato l'ultima bozza, mettendo in discussione molte delle certezze che fino a poche ore prima non mi davano alcuna preoccupazione e che addirittura mi rincuoravano. Adesso quelle sono ripiombate nel vuoto e non esistono più. Ieri mattina ancora delle ultimissime variazioni, ma quando la sostanza che sentivo nella genesi, – intendo nella fase caotica ma pulita del buio fitto, quando non si conosce quale sarà la prima parola, ma si ha nel cuore la risonanza del disegno non ancora tracciato – è arrivata a quel certo equilibrio, allora è stesso il racconto a chiudersi e a negarsi nell'ossessione di un ulteriore intervento, come se esprimesse un rifiuto a essere toccato ulteriormente. Forse per via di quell'economia di pulsazione che avrebbe organizzato e correlato i vari frammenti sparsi della storia. È come quando è arrivato l'attimo, quasi mai pianificato, di mettere la parola fine, di spegnere le luci sulla scena, di salutarsi con gli amici, anche se con una sottile resistenza. Certo, ripensando alla sensibilità esercitata nelle due fasi estreme, quando non si è ancora scritta una sola parola e quando il racconto è già in viaggio e non più controllabile e modificabile, credo che siano le due dove in effetti la mente scrive di più, nelle due zone dell'impossibilità del contatto diretto con la parte chiara dove la parola nera è stata tracciata sul foglio bianco. Quando la scrittura è atto, elemento fattivo, quindi nella fase del getto e delle eventuali diverse revisioni conseguenti, già siamo in fase di trascrizione, di impulsi semmai molto lontani e accumulati da dimensioni emozionali e da esperienze che a volte, ma non sempre, sono molto più antiche della stessa idea di quel racconto e dei suoi ultimi preparativi prima di rompere il silenzio. È l'attimo prima di iniziare quello della grande crisi. Quello della prima parola, responsabile di un fermento molto più lontano e spesso impalpabile a cui prestare l'orecchio, a volte la gola, per continuare a realizzare l'armonia della pulsazione che si è sentita di quel tessuto vivo e a sostenerne quel carico di oscurità e di speranza, dentro il mistero dei suoi crocicchi e delle sue ultime svolte e varianti, sempre sul ciglio rassicurante di un nuovo dirupo.
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