sabato 30 marzo 2013

Non altro

Il disgusto arriva quando le cose da dire diventano creature, forme di vita che ti costringono a consacrarle padrone di un tempo inutile che si illude prezioso e indispensabile del suo frastuono. Una forma confusa di religione. Il solo pensare quello che sia giusto dire, il come dirlo, mi immola a una relazione spasmodica e inutile con queste strisce creaturali e voraci, che mi sottraggono il mio cibo come tenie e mi tolgono luce e spazio.
Che senso ha: allora?
Che cosa c'è da decidere, da concludere, da confermare? Ma per chi, poi? Per qualcuno che mi sta aspettando, che mi chiede di parlare, di dire la mia, quando non sa neppure che esisto? 

Quante parole e quanto disgusto, a volte, il solo progettare un pensiero, la sua condivisione, il suo delitto.
Che cosa ci sarà più bello del vedere una mucca che mi guarda e non dirlo. I suoi occhi mi allattano. Poi basta.
Che cosa avrei più da dire? Una mucca pezzata che mi allatta con i suoi occhi da cimitero è già un dire, il solo vederla. È già un dire il respirare la sua stessa aria. È già un dire il desiderio del suo silenzio tombale. Del tacere.  
Non riesco a essere a mio agio con il temporale di questo dire, che si osanna e si esamina, si immola a se stesso, si punisce e si premia con lo stesso pugnale inferto nel vuoto. Un barocco infinito, che si compiace nel rincorrere l'espressione perfetta senza conoscere l'amore clandestino per il silenzio.
Vorrei rimanere muto, in un luogo aperto. Una casa azzurra che fuma, l'amore di un cane bianco. L'odore buono del fuoco.
Arriva la sera. Da lontano le ultime voci del giorno. 
Il desiderio di rendere vivo questo mio mutismo, come neve da una finestra.
Non altro.

mercoledì 27 marzo 2013

Canetti e la dimensione del romanzo



È un tipo di visione, quella di Elias Canetti, riguardante il romanzo, che mi avvince molto.
È per questo motivo che la inserisco nel post di oggi, senza aggiungere o sottrarre altro.
Si basta assolutamente da sola:

"Non che dai romanzi la mente tragga molto nutrimento. Il piacere che forse essi offrono lo si paga a carissimo prezzo: essi finiscono per guastare anche il carattere più solido. Ci s'abitua ad immedesimarsi in chichessia. Si prende gusto al continuo mutare delle situazioni. Ci s'identifica con i personaggi che piacciono di più. Si arriva a capire qualunque atteggiamento. Ci si lascia guidare docilmente verso le mete altrui e si perdono di vista le proprie. I romanzi sono dei cunei che un autore con la penna in mano insinua nella chiusa personalità dei suoi lettori. Quanto più precisamente egli saprà calcolare la forza di penetrazione del cuneo e la resistenza che gli verrà opposta, tanto più ampia sarà la spaccatura che rimarrà nella personalità del lettore".

Elias Canetti- Auto da fè.

lunedì 25 marzo 2013

Quanto disterà mai?

Quanto disterà mai la vita di un mio paragrafo, appena gettato o semmai cesellato per interi pomeriggi, dal colore di un pullover che indosso, al buio, semmai con il collo storto, l'etichetta al contrario? Dal tipo di camicia, di pantaloni. Dal taglio corto di una mia basetta. Dal tacco di una mia scarpa, dall'imbottitura di un mio giubbino, di un mio cappello, dalla scelta dei miei occhiali da sole blu con le stanghette bianco panna, che ieri mattina ero convinto di aver perso, – quando invece li avevo appena attaccati alla cerniera semiaperta di un maglione azzurro, e di questo me ne accorgevo soltanto specchiandomi in una vetrina, dopo aver fatto per due volte il giro di Fnac, con la speranza di ritrovarli da qualche parte.
Quanto disterà mai il mio stile involontario, quello che trapela nel modo di vestire, di parlare, di respirare, di camminare, di gestire e di percepire la vita, dalle cose più semplici o leggere, alle più complesse della mia esistenza o insistenza...semmai vissute senza peso, sforzo, forma o eleganza,
dallo strano profilo nebbioso di quel paragrafo sospeso? 

domenica 24 marzo 2013

Non bisogna costringersi a un'opera

Non bisogna costringersi a un'opera, bisogna solo dire qualcosa che si possa bisbigliare all'orecchio di un ubriaco o di un morente.

E.M. Cioran

Demian point:




sabato 23 marzo 2013

Il colpo di fionda

È sabato pomeriggio. Dalla mia stanza sento le grida di alcuni bambini che si rincorrono. Sento anche le grida delle loro scarpe e dei loro passi, quando rallentano.
Penso e scrivo, pensando a quanto si cambi, attimo dopo attimo: percezione di sé, di quello che si sente, di quello che si crede di sentire.
A volte la mia vita è la mia ragazza che mi sta seduta sulle ginocchia, che mi guarda dentro gli occhi, mi chiede che cosa facciamo, mi dà il broncio. Ha il viso truccato e pieno di aria aperta. Una lunga passeggiata, le dico, una passeggiata senza parole, ma con questo viso bagnato dalle ombre. Una giornata bellissima, questa mia vita che cambia e che mi rimane dentro, come una persona.
Ritorno al senso di cambiamento, anche sulle mie idee. Su quello che avverto giusto e ingiusto. Al disgusto di dire per il solo fare.
Quando scrivo cerco del nuovo che non conosco di me. Non mi interessa di parlare di quello che già conosco di me. Quello che conosco si racconta senza necessità che si cerchi. Solo la parte che non so, quella appena prima del cambiamento, quella ancora scomparsa prima di comparire, è l'unica che vale la pena di raccontare. Il nuovo è il mio lato scomparso.
Non trovo interesse nell'ingegneria della letteratura, nemmeno in un mondo di lettori che decidono la letteratura dal numero delle parole ingerite, così come quelli che decidono l'amore dal numero delle chiavate riuscite.
Non trovo interesse nel mondo che conta e che misura. Che calcola, che delinea. Non credo nelle verità assolute.
Ho imparato a scrivere senza occhi. La scrittura non è fatta di parole o di musei, ma di condizioni sentimentali e tragiche. Ho trovato grandi rivelazioni in persone che non mi hanno mai parlato di libri, di stili, di economia narrativa. In persone che leggono poco o che non hanno quasi mai letto. Ho amato la letteratura nei luoghi lontani, nei cuori dove il suo sole non batte. Ho scoperto di avere una voce, nei luoghi dove questa voce non potrà mai arrivare. Ho imparato a leggere senza sapere che lo stavo imparando. Non credo di desiderare un'estensione della mia capacità di ingegneria espressiva, quella che consente di essere performante e funzionale, come un proiettile, un battello a vapore.
Preferisco una regressione ma una sincerità e un lavoro tremendamente profondo. Un lavoro divorato dal buio di una mia luce. Un lavoro al buio di me. Che sia lungo duemila pagine o il rigo di un racconto, non sarà scritto per chi ama i libri, ma per chi ama la vita. I libri e la scrittura sono parte della vita ma non sono vita. 
Il mio cambiamento è la mia pasta, la mia imbarcazione, la mia canagliata più grande. 
La mia migliore creatività è il mio analfabetismo di ritorno e di sola andata. Il mio viaggio solitario.
Il colpo di fionda che infrange un vetro. Lo spillo soffiato a dispetto sulla coscia appena scoperta della cassiera che mi sorride.
Adesso mi intrattengo più tempo sulle revisioni, anche dei giorni dopo che i fogli stampati sono stati corretti. Ho meno fiducia in me, ma anche più amore in quello che faccio.
Più mi amo e meno mi credo. Proprio così.

venerdì 22 marzo 2013

Ideologia e linguaggio: Sanguineti su Miller


Credo di avere acquistato Ideologia e linguaggio, di Edoardo Sanguineti, per rivisitare Miller dalle sue fauci. Di Sanguineti avevo appena terminato Il gatto lupesco, in cartaceo, raccolta caleidoscopica che racchiudeva un raggio molto ampio e significativo della sua produzione (1982 -2001), e avevo gustato le note a un'edizione dell'opera completa di Gozzano della Bur – per cui ero abbastanza allenato a  certe tensioni e torsioni ginniche di bellezza –, quando mi imbattevo nel grandissimo saggio Miller una poetica barocca, inserito appunto in Ideologia e linguaggio, come avevo già annusato nella scorsa elettronica dell'indice (formato ePub da urlo: di una nitidezza e una qualità dei caratteri davvero straordinarie). Uno scritto lucidissimo e davvero imperdibile,   come ho avuto modo di constatare dopo ripetute e attente letture.
Sanguineti raccoglie dei tratti essenziali della poetica milleriana, e li restituisce in una luce nuova e originale, dentro una fosoforescenza e un acume che danno i brividi.
Credo di aver letto i due Tropici di Miller, tra le quattro o le cinque volte – il Tropico del Cancro l'ho cominciato a quattordici anni, in un'estate afosa, sprofondandovi dentro, come in un baratro luminoso e senza fondo: da allora non ho mai finito di interessarmene e di scorgerne arcani, archetipi, arcate barocche e architravi infrante – ma questo periscopio di Sanguineti entra da un lato particolarissimo, chiarendomi nuovi lati oscuri e oscurandomi, in modo infallibile e preciso, molti altri lati che ritenevo piuttosto chiari o quanto meno chiariti.
Dunque, veniamo ai fatti e ai misfatti. Qualche stralcio ve lo devo. Ai conoscitori e ai puristi lascio le analisi che mi hanno maggiormente scosso. Non altro.
Ciascuno esplorerà e macinerà in segreto, nella sua personale dimensione.

Cito Sanguineti insieme al suo citare Miller:
E la barocca immagine del grande libro del mondo ritorna, approfondita, nelle stupende pagine che chiudono il capitolo I di Plexus:
(Adesso segue stralcio di Miller):
Se prendevo il tram o la metropolitana, leggevo in piedi, anche fuori, sulla piattaforma del treno sopraelevato. Disceso dal treno continuavo a leggere...leggevo le facce, leggevo i gesti, leggevo i passi, leggevo l'architettura, leggevo le strade, le passioni, i delitti. Tutto, sì, tutto veniva notato, analizzato, confrontato e descritto; per uso futuro [...]. Prima ancora che avessi abbozzato il piano del mio primo libro, nel mio spirito brulicavano già centinaia di personaggi. Ero un libro ambulante, parlante, un compendio enciclopedico che non cessava di gonfiarsi, come un tumore maligno.



Adesso ritorna Sanguineti:

Dove al libro dell'universo viene a corrispondere, nitidamente, il libro dell'uomo, il libro dello scrittore: macrocosmo, precisamente, e microcosmo.
Si capisce: dalla Recherce al Portrait, dalle Paludes al Kröger, il caso Miller non può davvero apparire eccezionale, calcolato in un simile registro. Il destino del romanzo si configura assai sovente, nel nostro secolo (e al punto che pare legittimo dubitare se ancora si tratti veramente di romanzo), in questi termini: romanzo del destino di un romanziere, storia, appunto, di una vocazione.

E ancora, per concludere:
Torniamo allora alle ultime pagine di Plexus, per un istante, e leggiamo:

Nel preciso istante in cui mi sedevo davanti alla macchina da scrivere, perdevo ogni spontaneità. L'idea del servirmi del pronome "io" non mi era venuta ancora, in quella epoca. Perché vorrei saperlo. Quale inibizione mi tratteneva? Forse non ero ancora diventato l'"io del mio io"?

E così, Sanguineti scrive:
Il parente prossimo, allora, non sarà davvero il Dante del libello giovanile, ma il Rousseau delle Confessions.



giovedì 21 marzo 2013

La presa nel primo buio, il colpo d'ascia:

Che cosa è successo al tuo viso?
Così potrei dirmi, osservando un bel mattino lo specchio mutato della mia scrittura. Un suo evidente pallore, improvviso, un pelo di luna sulle labbra. Una linea di dolore, di stanchezza. Qualcosa che fino a ieri non c'era o che forse ancora non percepivo. Un agguato.
Quanto mi sarà chiaro quel viso per specchiarlo in una certa fisionomia. Per relegarlo nello spettro di una forma, in un odore lontano di casa, in uno sterrato dove mi persi, nello scintillio di un abbaino di campagna, in un sapore. Tutto questo può sformare il lago di un viso, dissolverlo e annientarlo in una condizione indefinibile di incantamento e dissolvenza al mio stesso stupore, a cui sfugge quello che nelle mie parole disaccade.
Scrivendo assaggio la mia disavventura. La scarpata di primo mattino, la striscia di cattivo tempo che divora l'azzurro sulla ferrovia. Il topo nel becco arancione del gabbiano reale. La traversa di un quartiere amato, un sasso dove inciampo, le tenebre di un pozzo artesiano. Eppure dentro l'abisso incaglio nello stesso richiamo, che mi costringe a continuare e a scrutare il mio nuovo sapore attraverso quello che traspare e scompare dalle mie parole. Il fantasma del loro osso, il senso triste di sovrumano.
Scrivere di questa scomparsa, che comincia nell'attimo impossibile in cui mi siedo e stendo la mano alla freschezza di un fuoco fatuo.
E quanto sapore in bocca che mi soffoca il dire. Quanto sapore e quanto vorrei sapere di questo strano sapore, avvolgere il capo sotto questa gonna di vento, dove scoppiano gambe che non finiscono.
Lo stesso terzo aroma che scopro quando mischio il gheriglio di noce alla fettina azzurra di banana, e poi imbuio la mollica di pane, o quando addento l'uva rossiccia con una sfoglia di grana: sono tutti incontri in cui gli aromi accendono un sapore terzo e altro, che ogni volta non è lo stesso perché lo riconosco.
Tutto questo sapore è la macchina che mi conduce e mi fa scendere nel retro bagnato di un cortile. Le voci spente di una scolaresca e il rumore infinito della pioggia, ginocchia sbucciate, scale a chiocciola e passeggiate lontane senza mai sfiorarsi.
Quando comincio a scrivere avverto il rumore delle grondaie e l'odore della pioggia che sgocciola dentro di me, in uno specchio lucido di riflessi, da finestre appena accese, e la nonna di sera tardi, appena morta, che canta
Ma cosa è successo al tuo viso, adesso è bagnato ma trascorre ancora, fino all'ultim'ora, questo filo di mistero che non mi lascia. La presa nel primo buio, il colpo d'ascia.

mercoledì 20 marzo 2013

La prima visione, di Luigi Salerno, in archivio per prossima pubblicazione all'interno della collana Demian


Giusto ieri sera, appena rientrato, aprendo la posta ho avuto la conferma da Federico Guerri dell'esito positivo ottenuto dal mio racconto "La prima visione", in seguito alla selezione per l'inserimento all'interno della collana Demian.
Un progetto editoriale innovativo e molto interessante, che ha già preso piede, sia in versione cartacea che elettronica.
I testi della collana Demian hanno in comune tra loro il tema dell'adolescenza.
Ho lavorato con grande impegno ma anche con grande circospezione su "La prima visione", un lavoro misterioso e intenso, che affronta la tematica dell'adolescenza da una particolare angolazione, quella stessa che temevo potesse ostacolarne il percorso nell' ambito di una selezione, e che invece ha contraddetto in pieno le mie previsioni.
Questo risultato mi ha fatto riflettere su come sia importante perseverare in un proprio linguaggio, in una propria ricerca di voce, anche quando si avverte il rischio di essere definiti complessi, o troppo sperimentali e originali o difficili o anche qualcos'altro. Involuti: questo è un termine che va molto di moda se ti permetti di dire che da una finestra vedi una fioccata e avverti l'odore del latte che fuma dalla tua camicia aperta... 
Non sempre è così. Non sempre le cose che sembrano difficili lo sono. Non sempre una fioccata di neve sarà bollata perché ti riporta all'odore del latte o a una nuvola di talco o ai capelli della nonna sciolti nella notte.
"La prima visione" non lo avverto un lavoro difficile o facile. Le cose della mia vita non le divido in facili o difficili, ma in consonanti o in dissonanti con un mio particolare mood.
Dividere il mondo in cose facili e in cose difficili, è un modo raffinato per impoverirlo, e non certo per semplificarlo.
Un grazie sentito alla redazione della collana Demian, per la fiducia.
Di cuore.



martedì 19 marzo 2013

Valibation, a short film of Todd Strauss- Schulson:

VALIBATION from ulteriorproductions.com on Vimeo.

domenica 17 marzo 2013

L'unica ragione:

L'unica ragione che mi spinge a esprimermi, non ha ragione, se non la speranza di dire qualcosa che possa essere, in qualche mondo misterioso e irrazionale, profondamente amato.
Non analizzato, sezionato, giudicato, crivellato, ruminato, pubblicato, rifiutato, ma semplicemente
profondamente amato. 
Non è una ragione, questa illusione, e non ha ragione. Tutto quello che si immagina di fare ha a che fare con una misteriosa congettura, che ne assorbe il senso, la ragione, l'impulso, la sua luce prima.
Come l'ascoltare della musica con un non vedente, comporta l'estensione infinita di un proprio pulsar. Assimilare la cultura cromatica del non vedente attraverso la percezione purissima dei suoni e della luce, che nella sua fase adulta non differisce dalla cultura cromatica di un adulto vedente, mi ricorda l'impulso a scrivere verso un luogo lontano che mi vede senza occhi. Questa è la sola dimensione espressiva che riconosco, quella delle percezioni e delle sensazioni cromatiche, che spaziano nel buio della mia luce. Non altro.
È per questo che la mia ragione di scrittura o di espressione non ha ragione, se non quella speranza impossibile, e solo perché impossibile realizzabile.

sabato 16 marzo 2013

L'inizio è già la fine. Estetica dell'assurdo.

L'inizio è già la fine.
La prima parola, è quella che conduce tutto. Dalla prima parola le sorti del gioco. Dalla sua forma, la sua nitidezza, opacità, anche quell'opacità sonora, naturalmente. Esistono parole che sono come vetri appannati di primo mattino, che se utilizzate inquinano tutto il resto di quella strana patina, che condiziona la temperatura e i pensieri di chi le scrive. Gli anelli di un lancio di un sasso sulla superficie dell'acqua: una rapida dilatazione, espansione  e simultanea invisibilità, prima che il sasso scrittore sia già nel suo fondo e non sia rimasto altro alla luce.
Dunque una parola, la prima e il suo relativo costrutto, nasconde il seme dell'orchestrazione successiva. Il suo universo è già nel suo grembo. Un universo di suoni e di immagini, ma soprattutto la collocazione temporale di quel significato. Quando inizio devo dirti che tempo sto usando. Non parlo di un tempo coniugabile, ma di una personale valutazione cronologica di quello che avverto in quel determinato istante cone scansione cronologica. Ogni parola scritta e aggiunta si muove in un paradiso temporale appena accennato, senza una conformazione definita in partenza. Se mi chiedono che ore sono, quando sono al primo paragrafo, l'orologio del primo paragrafo sarà oltre, altrove, in un tempo ancora in deformazione, che deve costituirsi in una dimensione parallela  e misteriosa al tempo che vivo o che penso.
La dimensione temporale e irreale delle parole, deve rappresentare la corda e la schiena della narrazione. La spina dorsale invisibile.
Le parole si contaminano nella loro oscurità e lucentezza. L'una vorrebbe scorrere in un senso, alle stesse spalle di chi le scrive. Se comincio con la pioggia, vi sarà una tendenza alla luce, quindi ancora uno spasmo significativo di tempo, mentre se comincio con la luce, potrei aspettarmi rimbombi di tuoni da una zona lontana. Tutto potrebbe rincorrere il suo orgasmo verso uno stadio di contrasto o compensatorio. Molto spesso alcuni costrutti seguono un senso diverso da quello logico, narrativo, sequenziale. Inseguono la stessa dinamica di una cellula, di una formazione spontanea, un processo di mitosi, dall'interfase alla telofase, dove un apparato vitale prende luce da solo, in un processo di crescita o di autorevisione e sostituzione del vecchio, del danneggiato. 
Nel progresso di un solo paragrafo, possono racchiudersi le leggi universali del mondo o anche un annuncio erotico scritto col rossetto sulle pareti di una latrina. L'importante è assecondare il mistero e renderlo commestibile senza usare cucchiaini d'argento o regole e decaloghi da manuali di cucina. Inni alla semplicità, alla chiarezza, rimangono incastonati nell'assoluta insensatezza del voler razionalizzare e semplificare un processo ben più vivo e complesso. Imbalsamarlo ancora prima di ucciderlo.  Il processo non potrà mai sottomettersi all'automatismo e all'economia del risultato. Una scrittura non ha niente a che vedere con un suo risultato. Scrivere per il risultato vuol dire non cominciare mai a dire, ma solo a cercare in tutti i modi di trovarsi, a ottenere la prova attraverso il calcolo, la legge pulita del teorema. Illudersi che esista una prova e qualcuno che da qualche parte del mondo ti dica che ti sei trovato, che il risultato dell'equazione era quella, ecco la prova, guarda: i risultati alla fine del libro, quelli che non si dovrebbero mai guardare quando si scorre in un'equazione lineare.
Una prova che non si troverà mai. Sarà questa, in fondo, l'attrattiva e la maledizione appetitosa di tutto il gioco?  L'estetica del suo assurdo?

giovedì 14 marzo 2013

Condizione e convenzione espressiva:

L'espressione ha bisogno di una condizione, non necessariamente di una convenzione.
La libertà del potersi esprimere, l'individuazione di un possibile seme che attesti la possibilità e quindi la condizione quanto meno necessaria perché una certa forma espressiva avvenga, è l'inizio di un'autentica prigionia, che va gestita con carattere.
La condizione di prigionia della libertà espressiva individuata, è la convenzione che riconosco, l'unica aderente alla circuizione dell'esprimersi.
Ogni possibilità che sfioro è l'inizio di una soffocazione. La comunione con il fruitore oggi porta a un paradiso nebbioso e illusorio.  Le distanze sono enormi. Come la comprensione di un grande amore non detto ma patito.
Per raggiungere l'animo, il pensiero, il cuore di qualcuno, si deve attraversare un abisso, un abisso che non ha niente a che vedere con l'individuazione di una possibile facoltà espressiva, talentuosa, qualcosa del genere (non ho idea di cosa sia il talento e i suoi parenti: tutti ne parlano e si bagnano la bocca con la sua mollica. Io provo nausea per qualcosa di cui non so e non comprendo. Meglio tacerne. Più dignitoso).
Dicevo che mi separa sempre l'abisso. Di buon mattino, fresco e ritemprato, apro la finestra nella stanza dove scrivo e la riempio di aria. Entra l'aria della mia vita. Traccio un rigo, anche una sola parola, e ho rovinato tutto. Mi sono allontanato dalla notte. Pura follia. Mi allontano dall'aria di una finestra aperta per comunicare e rovistare dentro un abisso. Sognando qualcosa di cui non so. Chi mi leggerà mi reputerà un cane. Avvertirà la mia rogna sarcoptica e il mio tetano e così riderà di me. Porterà il suo libro elettronico in uno studio dentistico dove suonano della buona musica, e io sarò cancellato, anche da un solo accordo. Non ci sarò più. Un accordo di settima, anche un semplice accordo maggiore. Addentato dalla filodiffusione. Dalla mascherina verdemare dell'assistente alla poltrona.
Aprire la finestra, anche con un'aria molto fredda e tracciare una riga, è un delitto spaventoso senza pari. Un delitto imperdonabile e metaletterario. L'abisso è invalicabile. La comprensione di quello che sento deve scardinare e scavalcare recinzioni spinate. Non voglio sforzarmi di scrivere. Non è giusto che ci si sforzi di leggere. L'importante è che ciascuno apra le proprie finestre al mattino, e ascolti quello che avviene nella stanza della musica dopo il sonno. Ordinare le scarpe, ascoltare Respighi o anche Webern. Con la finestra aperta la stanza profuma di teatro. I pini di Roma o anche gli Uccelli di Respighi. Una Passacaglia per orchestra di Anton Webern mentre ci si allaccia una scarpa, appena rasati: si ama il cammino non ancora intrapreso,  l'odore dell'acqua di colonia e del detersivo che schiuma sul cortile e sulla tomba dove prega  una vedova ventinovenne.
Questo è quello che importa. Attestare il teatro dell'abisso che mi separa.
L'espressione ha bisogno di una condizione abissale, non necessariamente di una convenzione.

Tout à coup!

L'oscurità di Mallarmé è la speranza.
In un mercatino di libri,  due estati fa, entravo in possesso delle sue incantevoli Novelle Indiane, insidiose, tappeti volanti e rossi nella notte nera di un agosto.
Le Kohila chanta tout à coup, l'himne matinale: tutto a un tratto il cuculo intonò l'inno del mattino.
Si rivela come un lampo questo squarcio sonoro e boschivo: tout à coup: una lama di metallo attraverso una matassa lanosa, da Le portrait enchanté, prima delle magiche e ammalianti novelle della serie, dove l'occhio riposa e non cade e non affonda, ma precipita nei colori di tanta oscurità. Un precipizio che si accolla il silenzio tombale che precede e che segue la parola e il suo infinito. Il mistero della parola. Il suo bacio oscuro di rossetto nero. Il mio mondo è fatto di figure che si smuovono dietro le tende. Se devo sollevare la tenda ho compiuto un delitto. Se devo mostrare tutto, come un compitino di scuola elementare, ho ucciso la possibilità unica della mia voce. Per sempre. Ho frenato la bellezza del mio vomito! La grande speranza di un fallimento rivoluzionario e felice.
Mallarmé è quella traccia di belletto, è l'umido della parola all'orecchio, la ricchezza dell'oscurità, del suo nudo commovente.  Ricordo l'aria di mare notturno, la notte dell'acquisto di queste novelle. Ricordo l'angolo dove ho parcheggiato l'auto, i tavolini accesi di un dancing all'aperto, le luci del cielo, l'ansia di aprire e di divorare l'oscuro che avevo appena impugnato, il pelo strozzato nel suo collare. La scrittura che amo è addensata di oscurità. E ogni volta che vi affondo dentro, dentro la sua terra, questa oscurità che mai mi sazia, si avviluppa sempre di più, si attorciglia intorno alla mia malinconia fantastica e impetuosa, dandomi sempre spettacoli nuovi di una delicatezza tragica e variopinta, che non si allontana mai dalla sua natura sorprendente e magica, che mi legge la mano.
Adoro le porte chiuse, che abbiano la pazienza e il fascino dell' uscio triste e socchiuso, di una luce che si intravede nel fumo, di un'ombra che striscia attraverso un temporale. Senza avere la chiave, ma solo l'udito per il cigolio. L'odore per quello che vi cucinano oltre. L'occhio fresco e blindato verso il dirupo e la mezzanotte infinita, dove infilare la lingua delle mie cento dita di occhi e trattenere una nuova risata.
Insieme a questa magnifica collezione trovai anche una raccolta di racconti di Maupassant, in un'edizione molto particolare. Una copertina rigida di un color verde bosco, molto molto vecchia, recuperata da chissà quale misteriosa biblioteca di fantasmi o di bibliofili morti pazzi!
Ricordo i particolari di quella sera di quei due acquisti. Come ricorderei i connotati di un'esperienza indimenticabile, come può essere la lettura di certa letteratura.
Non ho mai ascoltato consigli su cosa sia giusto leggere. Ho patito i miei incontri e le mie scoperte sentimentali, come spasmi profondi. Non consiglio cosa leggere. Non creo classifiche dentro di me, ma orizzonti di amore e di passione per la cultura e la tenebra che mi ha formato e fermato dentro di me.
Ogni parola uno spasmo di tenebra, l'inizio e il batticuore dell'avventura, come gridava Gesualdo Bufalino, che ancora mi rintuona dentro il suo bagliore di aria aperta e di miracolo.
Non ho mai ascoltato consigli su come sia giusto scrivere, perché non credo che lo scrivere sia qualcosa di giusto, ma di profondamente ingiusto. Avventurarsi seriamente nelle dinamiche della scrittura, è un'esperienza che ti avvicina all'ingiustizia spaventosa dell'esprimersi, dell'essere fraintesi, disattesi, arresi e disillusi. Non esiste un modo giusto di leggere  e di scrivere, così come non esiste un modo giusto di amare o di dormire. Le mie ore di sonno saranno la mia lingua e la mia pace spaventosa, quando arriveranno e mi ammanteranno di oscurità, oltre la possibilità di ogni luce e di ogni pace.
Non ascolto ma sono attento a quel cuculo, costantemente, anche adesso, lo sento che rientra nel circolo sonoro di questa notte. Nel precipizio mi attende. Oltre il niente più di me:

mercoledì 13 marzo 2013

The Isle of the Dead

domenica 10 marzo 2013

La resistenza al condizionamento

Se io decido di esprimermi ho fatto una scelta.
Qualsiasi sia la formula della mia espressione, della mia dimensione, ho già scelto una mia parte con cui mettermi in gioco. Esisteranno persone che concorderanno con questa mia scelta, in qualsiasi modo essa venga sviluppata, gestita, anche dalle prime bozze, quelle più catastrofiche, ma anche quelle più pure e più vive: già da quelle gli estremi di questa scelta comporteranno degli schieramenti e quindi altre scelte rispetto alle persone che testimonieranno quella particolare esperienza espressiva.
È molto difficile che qualcuno che scelga di consigliarmi, abbia la volontà di sentire, di approfondire e di vedere oltre il proprio naso. Anche con tutti gli elementi a posto e in ordine, quelle stesse persone e consiglieri, sentirebbero la mancanza di quello che è stato appena aggiunto e dimenticando di essere stati i primi a consigliare certe direzioni, cercherebbero a tutti i costi di eliminarle, additando in primo luogo le mie ultime revisioni.
Questo è un lato spinoso dell'esprimersi. La resistenza al condizionamento, al vivere qualsiasi giudizio, anche il più autorevole, come l'espiazione di un debito, la frustrazione, il senso di colpa di non scrivere come chi ti ha letto vorrebbe che tu scrivessi.  Del pensare di averlo fatto con le mani sporche, senza incarnare lo stile e la mano degli scrittori amati da chi ci legge e ci giudica. Così come trovo giusto, invece, l'accogliere e il riconoscere con gioia, il consiglio o la critica di chi non si pone come un censore ma come un benefattore della mia espressione.
In ogni caso queste sfere di giudizio non saranno mai troppo nette e riconoscibili e nemmeno sempre così veritiere, né le buone e nemmeno le cattive. Anche in quel caso è importante scegliere quanto peso dargli. Conoscere la storia e annusare il valore di chi mi giudica.
Quando si sceglie di dire, è molto importante porsi con la relativa lucidità  e obiettività, senza sentirsi sporchi e in debito per il solo fatto di aver scelto una voce. Di avere deciso di esprimersi con una scelta, senza chiedere prima il permesso, in attesa che la stessa fosse concordata ancora prima di essere, come forse si vorrebbe.
Credo:

venerdì 8 marzo 2013

Ogni donna del mondo...

Ogni donna del mondo, è una candela accesa nel buio della notte.

lunedì 4 marzo 2013

La perfezione

La perfezione è nel non fare.
Questo post sarebbe stato perfetto solo se lasciato in bianco. Un bianco assoluto, senza nemmeno un titolo. 
Che cosa mi muove a interrompere la perfezione del silenzio è un mistero. Intanto accade. Come adesso, in questo post che sto oscurando verso una sua svilente e crescente imperfezione, e in tutte le altre forme o condizioni espressive tumultuose nelle quali mi imbatto.
Non mi farò troppe domande, ma avverto la necessità di esprimermi attraverso la ricerca di un mondo che sia assolutamente personale, al di là della mia formazione. Un mondo che non sia valutato in estensione, in profondità, in intensità, in espressività: quelle le troviamo ovunque. Non sempre, ma ciascuno avrà il suo rancio nei suoi canali di frequentazione.
L'unico movente che mi porta a sporcare e inquinare la perfezione del bianco e del silenzio, è di rovinare quell'incanto di perfezione muta in un modo personale. Di sbagliare, di fallire, di impazzire, ma a modo mio: ecco dove mi interessa spostare la mia ricerca. La videoispezione dell'impianto fognario della mia condizione espressiva, per dimenticarmi tutto il resto e cercare solo quel seme. Il seme di una mia ricerca. Una ricerca che spazi, che vada su altri litorali ma con fame e con sete.  Anche sbagliata, fallita, disastrosa. È lì che voglio battere e combattere. O controbattere. Una ricerca spasmodica e antieconomica, impopolare ma assolutamente sincera e pura. Semmai tracciare un rigo solo che dica davvero di me. Poi tacere. Dovrò tracciarne miliardi a vuoto, prima di quello, ma so che ne sarà valsa la pen(n)a.
Forse.

domenica 3 marzo 2013

L'amore per la salita:

Nell'amore per la salita si riversa il senso e l'abbraccio del percorso. Il dolore del suo bacio. Non esiste un bacio al mondo, né primo né ultimo, che non conservi dentro il filo naturale del suo dolore, come aroma di confettura. Così la strada di chi vuol dire: la sete di vetro della scalata. Non trovo sensato cercare scorciatoie, preferisco scorci solitari e franosi. Salite su salite: sfinite-infinite.
La salita di chi scrive sarà spesso anche la sua slitta: in diversi altri casi l'arrivo di un'angina insidiosa, che stringe il petto e causa capogiri se guardi appena più in basso, o se una volpe rossa ti guata e ti minaccia dalla sua tana prima di balzarti alla gola.
La discesa è lasciva. Non ha ombre ma non ha nemmeno luci di deserti e tramonti. Manca di contrasto e di tremendo. È molto trafficata e sfiziosa. Durante il percorso in discesa non riesci a sentire il vento, perché tutti gli altri che scendono con te, parlano della partita, o di come è dolce quella strada in discesa, di una serata al cinema, dei pompini di una  cameriera.
La strada in discesa ti arrende senza metterti in combattimento. Ti arrende e ti rende glorioso della trovata del non combattere. Ti mortifica del tuo trionfo.
Non mi identifico nelle discese, ma nelle possibilità infinite delle salite, nella loro solitudine assoluta. Nello scorcio arioso della luna dalle tenebre di un bosco, che respira con me della mia morte.