Un fattore che mi attrae e che mi sensibilizza alla conoscenza della mia persona scrivente, è quello della sensazione fisica da cui scaturirebbe, credo, il pensiero a cui sarebbe poi radicata la cima della parola. Non credo che sia sempre così, anche se sono convinto che la sensazione fisica sul pensiero abbia un ruolo molto importante, così come il pensiero avrà un ruolo determinante sulla sensazione e la parola diventerà escremento, perla, detrito tossico. Insomma, con la finestra aperta e con un odore di pioggia, non credo che attiverei processi simili a quelli che potrebbero snidarsi da un odore di foglie bruciate o di bosco. O dal solo passaggio di qualcuno, dal cortile. Un tono di voce, lo scatto di un accendino, potrebbero sollecitare e invertire per frazioni impercettibili la condotta di un certo pensiero in delicata formazione, deformarlo, dirottarlo o ammantarlo di altro, nel suo stesso embrione: forse della freschezza e fragranza di quella sensazione esperienziale imprevista, così come quella che emerge di continuo dal mio lato nasconto e in carburazione, che mi assiste e che mi dissesta durante il viaggio.
La parola si forma come culmine di un processo alquanto oscuro, che può essere pianificato solo in parte come sequenza logica e coerente. Non amo nemmeno pianificare a ritroso mappe e particelle catastali delle mie buone o condotte narrative, preferisco altro. Ci sono persone che cercano di svelare ogni passaggio, quando molte parti rimarranno lo stesso nel mistero. Mi conosco di più, ed è questo il punto, quando scrivo, perché mi accorgo di quanto sia poco prevedibile, fino a pochi istanti prima della battitura, la formazione e la natura precisa del mio cristallo. Credo che una parola abbia la natura del cristallo, la fragilità ma anche la rifrazione e la condotta di luce. Mi conosco attraverso tutte le fasi, ma quasi nessuna è come avrei voluto o pensato di volere; sono tutte altro da quello che davvero avrei voluto, e anche se fossero stato quell'altro, si sarebbero insinuate ancora altre volontà spettrali di inespresso: sono quelle, secondo me, la vera voce di chi scrive, la parte amica e più profonda: l'inespressa, quella che non è uscita ma che ha lasciato una sua ombra. Per quell'ombra varrà la pena di continuare.
Ogni testo, qualsiasi sarà il suo destino e qualsiasi giudizio riceverà o non riceverà mai da qualcuno, mi avrà lasciato qualcosa, per questa sfida con la parte non esprimibile, mi riempio e mi formo. Nell'impossibilità di dire quello che vorrei, comincio a dire: nel non scritto si comincia a vibrare di un suono diverso e frustrante, quanto più puro e autentico. In questo processo di elaborazione di parole da sensazioni e da pensieri, avrò conquistato anche una sola parte di me, che in altro modo sarebbe rimasta persa e inesplorata. Anche l'ultimo appunto dimenticato, può riservare grandi sorprese e ottime opportunità di introspezione, a patto che non siano infiltrate dal fantasma della competizione. Dal movente o dallo scopo, dalla strategia di arrivare allo scopo con dei compromessi per farsi accogliere o tollerare rispetto a un altro.
Mi piace immaginare ogni parola come un atto di puro assurdo, squarcio ginnico di femorali, capriola e verticale, che al momento deve mantenere questo suo luogo naturale e sospeso, senza essere forzata ancora in una logica di concatenazione consapevole che non ha. Non sarà mai subito fruibile una parte fresca e materiale di linguaggio. Al massimo la posso toccare con la punta della lingua, ma non è ancora cibo. È molto importante elaborare la materia creaturale e letteraria verso il cibo, soltanto quando avrà espresso le sue possibilità primigenie, quelle dove la redine sarà allentata. Ci sarà sempre tutto il tempo di gestire le redini con maggiore tensione. Ogni fase di lavoro sul mio testo userò un tipo di tocco sensibile e di mano, di strappo, di tiro. Ma in ogni lavoro il metodo non sarà mai lo stesso. Spesso il metodo non è mai sempre lo stesso da un capitolo a un altro; a volte da una pagina; in alcuni casi da una parola all'altra. Devo modulare un sistema che sia flessibile con il mio universo di percezione, quindi di rielaborazione, attraverso fasi dure e diverse di tempo, in cui continuo ad allontanarmi da quello che ero fino a poco prima e che sono stato nel momento del getto. Tutto il complesso ingranaggio e disegno, andrebbe così a scomporsi in nuovi universi, tutti legati alla sensazione o contesto casuale del momento percepito e trasferito. Per questo rimane sempre qualcosa di tralasciato, che però a volte è presente, ancora di più di quello che invece ho lasciato come elemento espresso e relativamente definito.
Mio zio scriveva canzoni, e usava i numeri. Attraverso i numeri prendeva la taglia di collo alle sue parole, le incamiciava in un tempo logico che baciasse la frase melodica della musica e la penetrasse di una sua naturale unità, come in un abbraccio perfetto che confonde due figure intrecciate di fidanzati in controluce. Nella scrittura esiste una numerica inconscia, altrettanto funzionale e continuista, che si frappone tra quello che è pensato e che è calcolato, al lato violento e represso, che si esprimerà solo a frammenti lavici, disordinati, senza senso, ma preziosi.
La conoscenza di me attraverso questi processi, mi insegna come regola prima ad adattarmi e ad accettare l'imprevedibilità e la mia mutevolezza in qualsiasi processo di costruzione, che sia un incipit, un verso, un intero romanzo, una short story. Non esiste un solo punto da cui parte una sola retta. Esisteranno tanti punti diversi che dovranno tracciare il proprio unico filo, da distanze e da prospettive diverse. In questo sono maestri eccelsi i ragni; i ragni saranno allora ragni-maestri.
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