"Si dovrebbe cercare di scrivere con il viso ancora fresco di strade, o accaldato da locali riscaldati".
Il passaggio puro dell'incubazione di un' impressione potrebbe, con una distanza eccessiva, tradire e snaturare l'impressione".
"Dire di quello che sai e che sei sicuro di aver visto".
Non so dove ho sentito questi pareri, probabile che qualche volta ne avrò parlato io, in prima persona, ma dovendo appuntare alcuni miei pensieri sulla scrittura, credo di dover demolire quelle che molti ritengono verità assolute. Non credo, per esempio, che un procedimento che funzioni per uno scrittore possa risultare ugualmente valido per un altro.
Ma questo è elementare, io vado oltre, ma è bene specificare che queste mie esplorazioni saranno solo il resoconto di una mia strada, un modo per raccontare una piccola parte di questa mia esperienza. Nulla di più.
Il primo stadio, parlo per me, è la paura dello scriversi addosso.
È l'elemento principale, ancora prima di investigare sul soggetto e sull'oggetto di uno scritto, io avverto la reale possibilità di essere capace di affrontare questo scritto come qualsiasi altro individuo che non ha mai praticato la parola scritta. Di solito dura un bel po', più che un pensiero radicato, questa paura di non arrivare e non saper dire, è una sensazione di assoluta inadeguatezza alla gestione della parola.
Ma cosa devo dire? Che cosa sarà così importante da lasciarlo scritto? Forse, penso, quello che mi colpisce e che mi attraversa, che mi inquina ma senza che lo abbia mai cercato. Non credo che potrò mai andare alla ricerca di qualcosa che mi colpisca, in modo da avere materiale di lavoro.
Le cose che mi colpiscono non le conosco fino a un secondo prima del colpo; in alcuni casi, e a distanza di giorni, le stesse cose non hanno più lo stesso effetto. Per cui va aggiunto, all'oggetto contundente, un particolare contesto che renda chi dovrebbe scrivere o tradurre sensibilmente e naturalmente predisposto a una conversione di emozioni. Verso sfumature, riverberi da racchiudere nei codici di un linguaggio, per farla in breve in sterco di piccione, questo se lo si fa con il solo tentativo di sollecitare un'emozione mirata, di costruirla e di confezionarla.
Paura di lasciare solo residui, come quelli che il piccione domestico dispensa con generosità, semmai intrisi di ornitosi.
Parto da stasera.
Sono sceso per poco, ho visto cose normalissime, cose che non colpirebbero nessuno. Se adesso devo raccontare quello che ho visto, nessuno ne sarebbe colpito. Una serata prenatalizia. Isole pedonali. Automobilisti nevrotizzati. Una signora che faceva i bagagli e litigava con la figlia adolescente, la quale la vedeva carica di borsoni e non faceva nemmeno un minimo gesto per aiutarla. Che cosa vuoi? Mi dici che cosa vuoi?, così sua madre e quella si voltava dall'altra parte, poi ritornava a sua madre, si guardava gli stivaletti blu, mi guardi, per favore? È possibile che tu non riesci nemmeno a guardarmi? Nemmeno per un solo attimo? Ti sta parlando tua madre, mi stai sentendo? Avanti, parla. Ti sto ascoltando.
O anche ragazzi e ragazzine vestiti da Babbo Natale che offrivano abbracci gratis, questo a via Scarlatti. Uno striscione con del pennarello: abbracci gratis. Si lasciano o si concedono abbracci, o qualcosa del genere.
Ma è ancora tutto troppo normale, cose quotidiane, eppure qualcosa deve essere accaduto perché certe cose viste le avrò preferite ad altre, semmai anche più interessanti ma che al momento non hanno interessato quel certo spazio dove deve avvenire quella conversione misteriosa, in cui il codice o lo sterco di piccione, risentono di una mutazione o metamorfosi e si frappongono all'immagine o alla situazione contundente, per renderla quasi un'evocazione di qualcosa che in un altro contesto, un altro luogo o in un altro tempo, avrebbe colpito chi la sta leggendo. Evocazione di un altro accaduto, per esempio. In quel caso il lettore dovrebbe fermarsi e dire: ma è proprio vero, possibile che...che non me ne sia mai accorto? Accidenti, che strano Questo che cosa significa: che non conta quello che accade, non deve essere necessario un delitto efferato o una scopata megagalattica per tenere vivo o ben teso uno scritto, ma conta l'interazione con quelle dinamiche sottili e insidiose che rendono qualcosa, almeno in quel momento, indispensabile e compatibile per chi la legge, con qualcuna già vissuta e provata in qualche contesto della sua vita, e possibilmente con quella stessa particolare intensità, anche se solo rievocata.
Un' intensità non da sapere, ma da provare e da rievocare, o da utilizzare come filtro o bacchetta magica per una certa pescosa rievocazione che forse, senza quel passaggio, non si sarebbe mai attuata, mai scoperta, rinvenuta, riconosciuta.
Torniamo a stasera.
Anche nelle cose normali esistono cose speciali.
Visi o gambe? Dove cade l'occhio deputato alla descrizione di un oggetto o soggetto? Parlo da uomo:
i visi richiamano spesso la forma delle gambe. O viceversa. Quando il viso funziona e canta, l'occhio vuole sempre vedere se canta anche la parte delle gambe. I visi cambiano quando si ritorna a loro dopo aver visto le gambe. E anche le gambe, senza quel viso, sarebbero diverse. A volte guardo il viso e conto fino a 1,2, 3, 4, in attesa di non essere visto, se mi guarda, per spostarlo sulle gambe. Descrivere le gambe di un personaggio, spesso deve essere relato a un viso o a una certa immaginazione di quel viso. Lo sguardo non deve essere mai rozzo, uno sguardo rozzo e superficiale non vede ma beve, e dopo aver bevuto, o sbavato, prosciuga l'immagine e intanto disperde anche quella incamerata per ingordigia. Chi guarda in modo sottile non pensa, ma si trasforma in quello che vede, gli parla, come a una certa essenza creaturale. Altrimenti le cose osservate sono morte.
Uno stesso viso entrerebbe poi in relazione con altri fattori, ecco perché è così difficile parlare di bellezza come standard assoluto. La bellezza standardizzata patisce l'impossibilità a mutarsi, deformarsi e nutrirsi delle limitazioni parallele e fantastiche, che possono operare in un qualsiasi individuo l'orgasmo di un contrappunto complesso, con un'affluenza di compensazioni, pieni, vuoti, cedimenti, rinforzi. Il limite di un personaggio è la vita di una forma da muovere in una storia. Sia quello che limiterà di solito le sue azioni in un contesto, che quello che lo raffigurerà e lo riempirà, ma stavolta rondine modulante delle sue mancanze più o meno soggettive.
Tono di voce, profondità di sguardo, luminosità, espressione, aggressione, e anche per una serie di altre varianti molto insolite e improbabili.
Le gambe cambiano in base alle scarpe, ma anche a una parolaccia, a un colpo di tosse, a una risata, a un pianto a dirotto. Una donna che ride non avrà le stesse gambe di quando piange: sì, d'accordo, la struttura sarà la stessa, ma, per me che guardo, quella risata sposterà le ginocchia, così come un sisma una struttura geologica molto giovane.
Uno scrittore bravo deve distinguere le possibilità infinite della zona tra ginocchio pieno e area muscolosa e più o meno flessuosa o tornita (farcita di pieni) della coscia, che dentro un buono stivale di solito rendono in forma anche gambe bruttine o di donne in sovrappeso, ma il dettaglio più trascurato è il tipo di sguardo di chi indossa e di chi muove la coscia. Lo sguardo spento e smorzato, cambierebbe inclinazione e profondità al ginocchio, nel senso che se devo descrivere un certo bellissimo ginocchio e mi ricordo di quello sguardo, lo sguardo entrerà a disturbare le proporzioni di quella zona delicata. Ancor di più se la scarpa è bassa, se una delle due gambe è ingessata o se la donna in quel momento è incazzata come una iena; di solito si abbellisce, così se fuma o se beve, avrà cosce diverse. In certi casi con un bicchiere in mano si diventa altro.
Il tutto parte dal contrasto dell'osso del ginocchio e dell'estensione carnosa della coscia, ma lo sguardo diventa osso e carne, può rendere carnoso l'osso e molto ossuta la parte morbida. Così come può accadere in una figura femminile con un cappello. Il cappello modifica l'effetto e il movimento di una gamba, così come l'umore di chi lo indossa. Una gamba anche bella, con un brutto cappello, non riesce a svelare il meglio dei suoi tratti, ma viene appannata o anche amputata. Il cappello che funziona aiuta quindi sguardo e anche zone lontane, anche il ginocchio ritrarrà la bellezza del cappello e anche una coscia non perfetta prenderà la carne viva dello sguardo. Aprirsi il cappotto e scoprire un abito corto in un cinema, con distrazione o guardando altrove ma svelando, anche senza avere gambe perfette, ucciderà qualsiasi fantastica modella di Miss Italia finalista, con tanto di striscia obliqua o coroncina. Fulminata, zac...in un solo istante. Non esisti più! Ancor di più se quello sguardo avrà delle sue ombre, o se la donna sarà raffreddata, o insegnante molto severa o cameriera o direttrice di banca, cantante, parrucchiera. Ogni mestiere cambierà la sua tonalità, la sua storia. Anche la cultura. Una donna con cultura avrà anche cosce incolte e sgarbate, spesso arroganti e sboccate, così come persone semplici, possono avere corpi gentili e istruiti. Tutto questo l'ho percepito; anche se può sembrare assurdo è ancora possibile.
Così i capelli andranno a modificare le mani e anche le scarpe e le gambe i capelli e i cappelli, e anche una donna con i guanti avrà occhi diversi che se non li avesse indossati, così ginocchia, labbra e orecchie. E così via, all'infinito.
Il passo è importante, ma gli occhiali da vista, quelli molto doppi? Cambieranno la percezione del corpo, perché quella donna non avrà il controllo assoluto nel suo passo. Se qualcuno glieli togliesse e scappasse, o ancora peggio glieli rompesse, quella donna sarebbe impossibilitata a procedere, potrebbe essere taglieggiata, molestata e quindi un tocco di fragilità cambierà la linea del cappello e anche quella dell'osso del ginocchio e della parte superiore. Inaffidabile, più sospettosa, ma anche più diffidente o calcolatrice. Chissà. Anche le stesse gambe di chi è sola saranno molto diverse quando quella persona sarà in compagnia, e ancora diverse se sarà al telefono o al videopoker.
Si potrebbe andare avanti all'infinito, un personaggio lo scopro per sottrazione, da un universo di vuoti, di silenzi, di chiaroscuri, quasi sempre immaginati ma anche patiti per compenetrazioni da anni di occhi vivi e innamorati di ogni angolo.
L'occhio vivo è un occhio che ama e che non dorme mai. Ma che è sazio. Un occhio che non è sazio, non guarda ma lecca. Uno scrittore non deve leccare, ma deve istigare un tipo di sguardo intimo e privato sulle cose, ma deve avere la consapevolezza e la fermezza di restituirle in una loro interezza, pregne di un'emozione e non di un'erezione. Il gioco deve essere pulito, le stanze ariose, le cattive parole devono avere un leggero accento parigino.
È qui la grande abissale differenza. Il controllo di quello che fai non vuol dire non sentire, ma guardare sentendo e soffrendo per l'amore infinito che provi verso quello che vedi.
Se patisci l'immagine, se la guardi solo con le tue viscere, non potrai mai tradurla, ma la potrai a mala pena sentire come una lama, che ti spezza e ti confonde. Rendendoti cieco e poco medium. Scrivere di larve di mosca carnaia è facile.
Una ragazza con le ballerine e con i capelli raccolti, la immagino, in una storia, con un tono di voce diverso da una che ha scarpe da montagna con stringhe gialle.
L'osservazione deve entrare in un processo autoptico e impossibile, perché la figura non sia reclusa in uno standard di eccellenza, ma perché risuoni del suo indicibile, che in diversi casi, se lo scrittore è sensibile, può rasentare l'indimenticabile. O il suo grande dolore descrittivo. Quando descrivo e scendo sempre molto giù, ne soffro. Più è autentica la descrizione, più è vivo e saggio il mio dolore.
Ci si dimentica delle cose che si vedono spesso, che sai di non poter perdere, di quelle che hai sempre sott'occhio, che non rischi mai di non trovare, delle parole che ti tempestano, delle canzoni che trasmettono, così come delle persone che sono disponibili e recuperabili senza troppi sforzi.
Tutto quello che invece non si vede subito in quello che vedi sempre è quello che uno scrittore deve cercare e diventare la siringa azzurra del celato e del misterioso, che diventa, anche solo per un istante, confidenza, segreto, confessione, in modo che chi la riceve si senta unico in quel contesto a ricordarsi di aver colto lo stesso, ma di non aver avuto le parole, in quell'occasione, per dirle: quelle stesse che qualcun altro adesso ha trovato anche per lui. Ecco perché lettura e scrittura a un certo punto sono parti di una sola attività creativa, di un solo movente o pulsione e perché quest'attività può diventare un'esperienza impareggiabile e meravigliosa come poche.
Nelle gambe io guardo anche la tristezza, la malinconia delle braccia, quella profonda e lagunare delle nuche, credo che nella nuca si celi il cuore e il destino di un personaggio. La sua malinconia, la sua eleganza, il suo sguardo, la sua voce, la sua capacità di amare, di nascondere, di suonare, di disegnare, o di sognare. Il suo nucleo di nudo e di fuga.
Così come uno sguardo può essere porco come un sedere di un invasato da un finestrino, e una natica diventare gentile e sognante, come un ultimo sorriso da un treno.
L'ossessione alla sola penetrazione dei corpi, all'espletamento del rituale di appagamento, cancella da una figura descritta, tutto il suo possibile potenziale di sfumato, di accennato, di doloroso, di celato, di confessato e negato, di istigato, di mai saputo.
Le gambe di chi dice una bugia, saranno più belle, in quel momento, della modella sincera e onesta che le mostra per lavoro. La gamba anche bruttina che si gonfia e si sporca il collant sulla moto giapponese, avrà più erotismo di quella perfetta della soubrette che è inserita in un moto ordinario e quotidiano di svelamento.
La gamba scoperta e scura della madre che si inginocchia, stremata, per aggiustare la camicetta nel calzoncino al suo bambino, avrà molto più fuoco di quella esibita dalla minigonna inguinale di una ragazzina che strepita canzoni in inglese prima di andare a ballare. Così come a volte una gamba storta può farti sognare se a un certo punto quella persona ti prende il polso e ti racconta un suo dolore. Quel dolore può essere bello come un seno, a volte come un viso sereno e disteso, con gli occhi capovolti, mezzo assonnato, stravolto dopo una cena o prima di morire.
Tutto si nutrirà delle sue ombre, del suo negativo, del suo dolore di aver mancato, del dispiacere di essere altrove; una bellezza è sempre la componente di uno strano lutto con una propia parte che manca. L'erotismo è parte di un mondo di fantasmi, spostare la cenere di una sigaretta da un ginocchio, o anche posarvi la punta del naso, può rendere straordinarie e indimenticabili figure all'apparenza ordinarie, senza che debbano dire o fare troppo, ma per il solo contesto prospettico nelle quali le si inserisce, possono cominciare a parlare da sole, e dirci cose che il lettore scoprirà alle spalle dello stesso scrittore. Di questo ne sono convinto. Sono certo che alcune informazioni andranno oltre il programmato, l'ottemperato o il pianificato. Più è indicibile, qualcosa, più può aprirsi a un raggio molto ampio di sfumature e di trafitture.
L'occhiale di chi scrive deve essere ampio come quello della civetta. Spietato, silenzioso, istintivo. E solo in quel caso si potrà raccontare di un topo con la stessa leggerezza di un castello luminoso e innevato di fate.