Nei processi di scrittura, mi interrogo diverse volte su quanto possono essere lontane certe atmosfere, anche se sviluppate da una radice comune - che in questo contesto corrisponderebbe al mio modo di scrivere e soprattutto di strutturare i personaggi delle mie storie. In occasione di questa recente pubblicazione di "Fanny Nostalgie", riflettevo su quanto fosse delicata e sensibile la sua risonanza nel tempo, anche in un racconto disegnato a matita o in tinta lontana di pastello ma anche così compatto e velato, come se Fanny l'avessi inquadrata per tutta la durata della sua azione attraverso dei vetri doppi e appena opachi di un piccolo refettorio di provincia, dove si cena ancora con la luce fuori e dove posso delinearne a tratti alternati un'espressione, l'accenno di un sorriso, un movimento impercettibile di una mano alzata e poi di un braccio sulla bocca o sugli occhi e poi come se li stringesse appena nel solco della mia direzione -per riconoscermi in sé o riconoscersi in me-, e dove tutto in apparenza non tradirebbe alcun particolare evento o dinamica di tensioni, e forse non lascerebbe mai pensare che in quella piccola stanza con la luce accesa, ci fosse stato un cuore umano di una ragazzina da trapiantare poche ore dopo e appena sfiorato da un bacio; e così mi chiedevo e mi chiedo ancora, nonostante la difficoltà e la delicatezza della tematica affrontata, come fosse compatibile tutto questo piccolo incanto di tenerezza e di malinconia con l'oscurità esasperante e claustrofobica del racconto "La compagna di classe", forse una delle atmosfere più raggelanti e spaventose in cui mi sia mai imbattuto fino a questo momento da autore e che ancora mi impaurisce quando ci ritorno anche con il solo pensiero. Una stessa radice di pianta madre che ha prodotto dei getti così diversi, mi porta quindi ad analizzare il complesso meccanismo psicologico della creazione attraverso la scrittura di un mio linguaggio privato e ancora sconosciuto, dove interagiscono, in molti casi, degli aspetti imprevedibili, e in questi due casi specifici, l'esistenza di due figure opposte e lontanissime, o forse solo in apparenza, ma derivanti da una fonte irrazionale e comune di presagi e disagi esistenziali. Ciascuna storia, soprattutto durante un'incubazione di confronti con letture e pareri critici, svela un altro tratto di viso, quello che non era ancora chiaro e così si delineano nuovi percorsi e prospettive che, ripercorrendo la loro configurazione a ritroso, riportano allo stesso procedimento che dall'anamnesi riporta alla diagnosi. I personaggi, in alcuni frangenti particolari, possono diventare i miei sintomi, ciascuno con una sua fisionomia di sacrificio e forse anche la mia stessa cura o la strada più logica per impostarla. A volte ho trovato delle informazioni così preziose, che non mi sarei mai aspettato di incontrare così lucide o a volte spietate: il personaggio-sintomo avviene solo quando sorprendo un tema e una certa coerenza nelle sue trame che mi riconduce a un successivo e preciso passaggio di consegne dalle scelte irrazionali del personaggio verso una regione remota e inesplorata del mio inconscio, riflesso caleidoscopico della memoria e mai al contrario. Si arriva così in un processo quasi naturale, al nucleo o alla ragione di vita di un evento e di un soggetto agente autonomo, sempre dopo la sua disgregazione e in molte cirocostante lo stesso scrittore è innocente e del tutto ignaro del composto chimico che l'ha causata. E allora l'ultima notte di Fanny e l'ansia esasperante della compagna di classe, potrebbero incontrarsi in un solo e più ampio e organico processo sintomatico di ricerca: scrittura e malattia o senso disperato di perdita nel tentativo del recupero, in questo caso del sottile gioco di equilibri tra la parte nota e quella poco o meno chiara o troppo velata, ed è proprio in quel punto che l'affinarsi della tecnica narrativa deve battere e sensibilizzarsi al massimo per favorire con sempre maggiore maestria quel generoso ripiegamento alle dimensioni inspiegabili del sogno o dell'indimenticabile. Non è un caso che Fanny si trovi inchiodata in un reparto di cardiochirurgia e incarni quella strana sensazione di bellezza dell'indefinibile e dell'irrecuperabile che cerco di indovinare nelle cose che vedo e che forse non mi svelo ancora e nelle persone che vivo e che amo o in tutto quello che ho perduto e non ho più trovato, anche quelle in apparenza più lontane, la rara bellezza delle figure che tendono a sbiadirsi e a sfuggirmi ancora, saranno allora delle caratteristiche profonde o anamnesi, che sto appena scoprendo e verificando, sulla dimensione dell'altro e sul senso dell'affettività giocata a volte nell'azzardo delle situazioni più estreme, dove in moltissimi casi mi soffermo con occhio clinico, e quasi come spettatore o parte superiore e mutante della stessa assenza, in attesa che qualcosa in qualche modo si sblocchi, anche se vorrei quasi che si perpetuasse in eterno l'attesa (la compagna di classe), dove la bellezza e la complessità del personaggio diventano supreme proprio nel loro angoscioso confondersi e annebbiarsi nelle stesse ombre che forse saranno quelle mie, in un' attesa orgasmica e perdente che a volte vorrei protendere davvero fino allo stremo, e forse senza risolvere mai troppo l'accordo in una sola direzione ortodossa o definitiva. Sarebbe interessante svanire direttamente dentro il sintomo dell'assenza e dello sgretolarsi dello stesso io narrante in questo percorso di aggravamento come guarigione ( lo spavento di esistere) dove ormai Fanny e il personaggio della compagna di classe sono già perse e ritrovate, in una loro sotterranea e silente consonanza, operata addirittura alle mie spalle, un po' come tutti i processi del mio approccio alla componente più immaginifica della mia scrittura e della mia vita.
l.s.
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